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Un modo di dire (siciliano) tra pessimismo e fastidio: cosa significa "mi lassaru in tririci"

È nell’ambito conviviale che la "numerologia" del detto siciliano pare affondare le radici, con riferimento al passato e alla religione. Vi sveliamo questo modo di dire

Francesca Garofalo
Giornalista pubblicista e copywriter
  • 12 giugno 2024

Trentasei gradi all’ombra: l’aria calda invade le narici e penetra i vestiti che, inumiditi, hanno quasi l’effetto del piombo addosso. Tutt’intorno è un via vai di persone che si dileguano alla velocità della luce, giusto il tempo di una granita.

Così, ci sei solo tu e l’attesa di un appuntamento, professionale, amoroso o amichevole, che però non arriverà mai. Ore di sudore e un rientro a casa seguito da un: "Comu finiu - Com’è finita?", che avrà una risposta secca e accaldata: «Mi lassau in tririci - Mi ha lasciato in tredici».

Un’espressione che in Sicilia ciascuno relega alle pagine finali del proprio vocabolario, perché fulcro di un’esperienza empirica spiacevole: l’abbandono o l’essere piantato in asso al momento del bisogno.

Un detto, quindi, che si fa carico di tutto lo sconforto, il fastidio e l’insofferenza di tale abbandono, contenendo per di più il numero affibbiato alla "sfiga": il 13.
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Usato nei film thriller, associato alla sommossa di Lucifero e all’arcano della morte nei tarocchi. Le credenze negative riguardo a questo numero sono tali che per scaramanzia è bandito da alberghi ed edifici in America o dalla tavola, con un netto rifiuto di stare in 13, perché significherebbe la perdita entro l’anno di un commensale.

Piuttosto, ci si attrezza per un invito last minute. Ed è proprio nell’ambito conviviale, dove la numerologia del detto siciliano pare affondare le radici, con riferimento al passato e alla religione.

Nel mondo antico, esisteva la credenza secondo cui a tavola non si dovesse mai superare il numero di Muse e Grazie sommati (9+3); un richiamo alle divinità che fa pensare anche al banchetto dei 12 nel Valhalla, dove si palesa senza invito Loki, dio dell’astuzia e dell’inganno, a cui segue una rissa e la morte di un commensale.

Scuola e catechismo, invece, insegnano: nella Bibbia, Giuda Iscariota tradisce la fiducia di Gesù Cristo e proprio nell’ultima cena i commensali sono 13, i dodici Apostoli più Cristo.

Ergo, questo numero riflette proprio il tradimento di un attimo conviviale e personale, oltreché un legame sacro. Ma l’incredibile potenza di lassari in tririci non si esaurisce solo nell’ambito religioso, perché questo modo di dire trova una similitudine con un altro noto detto italiano. Infatti, suo parente è "Lasciare o piantare in asso”.

Secondo il vocabolario Treccani “abbandonare in modo improvviso e inaspettato” locuzione già presente nell’italiano a partire dalla prima metà del XVI secolo e alluderebbe pure alla principessa cretese Arianna, abbandonata al suo destino da Teseo nell’isola di Nasso; lasciandola dunque in (N)asso.

Italiano e mito a parte, sembra che "Lassari in tririci" abbia una valenza ancora più negativa rispetto alla lingua italiana, data dall’enfasi espressiva per un abbandono totalmente inaspettato e in un momento di reale bisogno o necessità.

Nessuna chiamata, zero spiegazioni o blande giustificazioni. Nenti. Un modo di fare che, se subito una volta, mina la pazienza di chi ne fa esperienza. E se reiterato rischia davvero di compromettere la relazione e anche la credibilità di una persona.

Poi, se aggiungiamo all’essere lassatu in tririci una rovente giornata d’estate, il malessere aumenta e forse quel 13 legato alla superstizione di Lucifero non sembra poi così fuori luogo.
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