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Per i cugini era un "mostro", per la madre una figlia: la storia del (vero) "Gattopardo"

Quel principe malinconico conteso tra la madre, Beatrice Tasca Filangeri di Cutò, e la moglie Licy, chiamata "l'orsa baltica". La vita di Giuseppe Tomasi di Lampedusa

Maria Oliveri
Storica, saggista e operatrice culturale
  • 15 marzo 2025

Giuseppe Tomasi di Lampedusa con la moglie Licy

«Grasso e con gli occhi sonnolenti orientali» così Fulco di Verdura avrebbe ricordato il cugino solitario Giuseppe Tomasi di Lampedusa, coetaneo compagno di giochi. Lo stesso Principe, conversatore adorabile, ma che della sua vita privata parlava poco, avrebbe ammesso nel 1955: «Ero un ragazzo cui piaceva la solitudine, cui piaceva di più stare con le cose che con le persone».

Figlio del principe Giulio Maria Tomasi e di Beatrice Mastrogiovanni Tasca Filangeri di Cutò, Giuseppe era nato il 23 Dicembre 1896 a Palazzo Lampedusa, confinante col delizioso giardino dell’oratorio di Santa Zita. Due settimane dopo la sua nascita, la sorellina Stefania di soli due anni era morta di difterite.

La madre prostrata dal dolore si sarebbe legata in maniera morbosa a Giuseppe, riversando sul figlio un amore soffocante, rivolgendosi a lui per il resto della vita con soprannomi femminili.

Il piccolo principe visse un‘infanzia felice in prevalenza a Palermo, se si escludono alcune estati trascorse a Favignana con i Florio e i numerosi viaggi a Parigi dove imparò il francese. Da maggio a ottobre di solito la famiglia si trasferiva nell’imponente Palazzo Cutò di Santa Margherita di Belice e qui nel 1904 la paziente maestra Carmela insegnò a Giuseppe, che aveva ben 8 anni, a leggere e a scrivere. Il palazzo vent’anni dopo sarebbe stato venduto in segreto dallo zio Alessandro, con grande rimpianto delle sorelle Cutò e dei nipoti.
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Le memorie dell’infanzia servirono allo scrittore da studio per i capitoli centrali del "Gattopardo". Quegli anni di spensieratezza furono tuttavia segnati pure da eventi molto drammatici, come il terremoto di Messina del 1908, in cui morì la zia Lina, sorella della madre.

Ancora più tragica fu la scomparsa improvvisa della zia Giulia, dama della Regina, assassinata a Roma dal giovane amante Vincenzo Paternò del Cugno. Il processo coinvolse nel 1912 tutta la famiglia dello scrittore e da allora il palazzo di via Lampedusa rimase chiuso agli estranei, i genitori si ritirarono a vita privata.

Nel 1914 Giuseppe conseguì la maturità classica al liceo Garibaldi di Palermo e l’anno successivo si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza di Roma, per far contento il padre che sognava per lui la carriera diplomatica, come lo zio Pietro Tommasi della Torretta.

Giuseppe sostenne un solo esame e a novembre del medesimo anno venne chiamato alle armi. Nel 1917 fu assegnato ad un osservatorio di artiglieria sull’altopiano di Asiago e venne fatto prigioniero. Riuscì a fuggire, dopo un anno di prigionia e sul finire del 1918 raggiunse Trieste e da lì Palermo. Tornò a casa lacero e malandato; non venne nemmeno riconosciuto dal portiere di casa.
Cominciò a soffrire di una grave forma di esaurimento nervoso: lo choc degli eventi vissuti durante la guerra lo avrebbe segnato a lungo. Decise di evadere da Palermo e tra il 1929 e il 1930 compì numerosi viaggi sia in Italia che all’estero, spesso in compagnia della onnipresente madre Beatrice.

In quegli anni Tomasi si appassionò alla letteratura inglese e il cugino Lucio Piccolo, non condividendo i suoi gusti letterari, gli affibbiò il soprannome di “mostro”. Il primo viaggio inglese avvenne nel 1925 e ad esso seguirono lunghi soggiorni nel ‘26, nel ‘27, nel ‘31 e nel ‘34, ospite dello zio Pietro della Torretta all’ambasciata.

Proprio a Londra nel 1925 aveva incontrato per la prima volta Alessandra Wolff, detta Licy, figliastra dello zio. Pietro della Torretta aveva sposato Alice Barbi, ex cantante di successo e facoltosa vedova che aveva già due figlie. Giuseppe percepì subito di aver molte affinità con Licy. Ebbero modo di frequentarsi a lungo.

Nell’estate del 1927 il principe si recò in Lettonia, nel castello di Stomersee nella tenuta feudale dei Wolff: rimase vivamente impressionato dalle ampie foreste, dal grande parco, dal lago, dal Castello da fiaba. Licy però era impegnata: nel 1918 aveva sposato un lontano cugino, Andrè Pilar; era stato un matrimonio infelice e burrascoso, che era finito in una separazione per la coppia e un esaurimento nervoso per Licy.

Ottenuto il divorzio, Licy il 24 Agosto 1932 sposò a Riga Giuseppe, che il giorno stesso delle nozze scrisse ai genitori, cercando la loro approvazione. Dopo cinque giorni di silenzio inviò alla madre un’altra lettera in cui si mostrava terrorizzato. Descriveva le virtù di Licy, aggiungeva “non ritengo immaginabile una vita senza di lei” e poi concludeva: “Non dimenticate che ho 36 anni sonati e non sono un bambino”.

I Lampedusa incontrarono a Roma in ottobre la coppia; ma nacquero subito diverse incomprensioni tra Beatrice e Licy. Giuseppe era uomo conteso tra la moglie e la madre. Licy finì per ripartire per il Baltico e Giuseppe la raggiunse solo in estate, ma si fermò fin oltre Natale. La situazione tra suocera e nuora non migliorò con la morte del principe Giulio Maria Tomasi nel 1934.

I coniugi rimasero ciascuno legato ai propri affetti: Licy a Stomersee e agli studi di psicoanalisi (nel 1936 sarebbe entrata a far parte della Società italiana di psicoanalisi), Giuseppe alla madre e al palazzo Lampedusa di Palermo. I due sposi si riunivano un paio di volte all’anno, quando lui andava in estate da lei e quando a Natale lei andava a Roma dalla madre Alice e per brevi periodi a Palermo.

Per il resto si scrivevano: parlavano di buon cibo, di cani amatissimi, di impressioni di viaggio e di pochi amici comuni come Bebuzzo Sgadari di Lo Monaco, Corrado Fatta della Fratta, Stefano Lanza Filangieri di Mirto. Licy si lamentava spesso dell’intrusione della suocera nel suo rapporto col marito.

Il peggio doveva ancora venire: la guerra, la distruzione e la perdita di quelle amatissime dimore che erano il rifugio della vita sia per lui che per lei. Nel 1942 i bombardamenti si intensificarono. Giuseppe con la madre e il cane Crab si trasferirono a Capo d’ Orlando, vicino ai cugini Piccolo, in una casa in contrada Vina. Licy non voleva tornare in Sicilia, non amava i parenti del marito: i Piccolo l’avevano soprannominata “l’orsa baltica” e la suocera Beatrice, nota per la tagliente ironia, parlando della cognata Alice Barbi, madre di Licy, più vecchia di 15 anni del marito Pietro, soleva chiamarla “la giovane Alice”.

Palazzo Lampedusa che nel ‘42 era stato colpito non gravemente, perdendo tutti i vetri alle finestre, venne danneggiato il 22 Marzo 1943 dai frammenti di una nave esplosa nel porto. Il 5 Aprile e poi il 9 Maggio le bombe venute da oltre oceano distruggevano il luogo più amato dal principe Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Una tragedia che lo avrebbe segnato per sempre. «La nostra casa - scriverà nei suoi “Ricordi d’Infanzia” - La amavo con abbandono assoluto e la amo adesso quando essa da 12 anni non è più che un ricordo. Fino a pochi mesi prima della distruzione dormivo nella stanza nella quale ero nato».

Giuseppe restò basito davanti alle rovine dell’amatissima casa e solo dopo tre giorni trascorsi senza parlare, rientrò a Capo d’Orlando. Quando anche la casa di contrada Vina venne colpita da una bomba, lui e la madre (che non erano all’interno fortunatamente) si trasferirono a Ficarra.

Dopo l’armistizio dell’8 Settembre Licy, che era finalmente tornata in Sicilia, si trasferì col marito a Palermo. La suocera Beatrice, anziana e rassegnata, sarebbe rimasta per 2 anni in albergo a Capo d’Orlando, rispettata e trattata con devozione come una vecchia regina; poi si sarebbe asserragliata in una parte del palazzo Lampedusa dove sarebbe morta nel giugno del 1946.

Dal 1943 al 1945 Giuseppe e Licy vissero in un appartamento in affitto a Piazza Castelnuovo tempi bui e infelici: la città distrutta, il palazzo saccheggiato. Licy cominciò a insegnare ed esercitare a Palermo. Giuseppe era alle prese con problemi economici e questioni ereditarie che lo avrebbero angustiato fino al giorno della sua morte.

Negli anni ’50 la coppia si trasferì al secondo piano di un disastrato appartamento in un palazzo in via Butera. Giuseppe lavorò un anno per rendere abitabile la nuova casa, raccogliendovi quel poco che era sopravvissuto del diruto palazzo e che riusciva a recuperare, scavando anche di notte e contendendolo ai ladri: alcuni mobili, uno stemma in pietra, boiseries strappate, mattonelle settecentesche, strutture in marmo delle fontane staccate dalla terrazza.

In via Butera non giunse una posata o una stoviglia. Si salvarono 2 alzatine in porcellana con lo stemma Cutò, pochi bicchieri in stile neogotico in cristallo (che compariranno nel romanzo). Riuscì a recuperare una parte dell’amata biblioteca. Al mercato nero ricomprò alcune cose sottratte dalla sua stessa casa.

Col tempo l’appartamento divenne confortevole ma Giuseppe non l’amò mai la casa di Via Butera, nonostante la grande terrazza con vista sul vicino mare. Negli anni ‘50 il principe appariva molto più anziano di quel che era, soffriva di alcune malattie croniche, aveva i reumatismi e il fumo aveva probabilmente già creato danni irreversibili ai suoi polmoni.

Lui e Licy avevano vite divergenti: Giuseppe era mattiniero, poco dopo le 8.00 usciva, con i suoi libri, diretto ai 3 caffè che amava frequentare: la pasticceria del Massimo dalle 9 alle 10, poi Caflish di via Ruggero Settimo, da mezzogiorno alle due da Mazzara, leggeva, scriveva, incontrava gli amici e i conoscenti. Rientrava a casa alle 3.00, ma a volte prima pranzava da Renato o al Pappagallo.

Licy non si alzava prima delle 11.00 e poi si dedicava a ricevere i suoi pazienti fino a tarda serata. Spesso i due sposi andavano al cinema o parlavano dei libri che leggevano. Erano una coppia molto unita, nonostante non si potessero immaginare due persone più diverse.

Nel 1954 quando Lucio Piccolo venne scoperto da Eugenio Montale e fu premiato per le sue 9 liriche, il successo del cugino sorprese Giuseppe: «Egli amava e stimava Lucio, ma nessun palermitano concede a un uomo del proprio ambiente la capacità d’eccezione» e fu per sua stessa ammissione questo episodio a fargli maturare l’idea di scrivere un romanzo, ispirandosi al bisnonno appassionato di astronomia.

Le due gite in Ottobre a Palma di Montechiaro, antico feudo della famiglia Tomasi, terra di Santi austeri, con la visita al monastero del Rosario (dove si commosse per l’accoglienza delle benedettine), contribuiranno a delineare le pagine del romanzo dedicate a Donna Fugata e la figura della Beata Corbera (alias Suor Maria Crocifissa).

Nel 1953 Tomasi cominciò a frequentare un gruppo di giovani (tra cui Gioacchino Lanza) nella cui memoria lascerà una traccia indelebile. Sarà il suo unico conforto oltre alle visite ai cugini Piccolo: “la piana è stata una delle poche oasi di luce in questi miei ultimi oscurissimi anni” dirà.

Nel 1956 Giuseppe scrisse a un amico, rivelandogli i 2 eventi che stavano per cambiargli la vita: «1. Ho scritto un romanzo, 2. sto per adottare un figlio (Gioacchino)».

Il 24 maggio di quell’anno il manoscritto del "Gattopardo", battuto a macchina, venne spedito alla Mondadori ma fu rifiutato. Giuseppe se ne addolorò. La sua principale occupazione era diventata la scrittura. Lavorò ancora al romanzo nei pochi mesi di vita che gli rimanevano.

Nel gennaio febbraio 1957 ricopiò il testo su un quadernone formato protocollo e il libraio editore Flaccovio lo inviò a Elio Vittorini, che all’epoca curava una collana della casa editrice Einaudi. Educato ed ossequioso Vittorini il 2 luglio rispondeva con un netto rifiuto. Fu l’ennesima delusione: il principe che era molto malato (aveva un tumore ai polmoni) si spegneva venti giorni dopo.

Morì nelle prime ore del mattino del 23 Luglio 1957, a Roma, in casa della sorella di Licy, col desiderio struggente e disperato di tornare a casa. Venne seppellito al cimitero dei Cappuccini di Palermo e dal 2023 le sue spoglie sono state traslate a San Domenico, Pantheon dei siciliani illustri.

Nella sua commovente lettera testamento al figlio adottivo Gioacchino, ritrovata dopo la sua morte in un libro, si raccomandava: «Vorrei anche pregarti di far pubblicare "Il Gattopardo”». Giacchino Lanza Tomasi affidò il manoscritto a Giorgio Bassani, che si recò a Palermo per ricostruire la genesi del romanzo.

L’11 novembre 1958 il Gattopardo veniva pubblicato postumo da Feltrinelli. Il 7 Luglio 1959 avrebbe vinto il Premio Strega.
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