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Paura, gioia e lutto nei ricordi da bambina: a Palermo non era festa senza Fiera dei Morti

La Fiera dei morti quest'anno a Palermo non ci sarà. Ma, grazie alle storie che sono parte ormai della nostra memoria collettiva, possiamo fare ricorso ai ricordi d'infanzia

Susanna La Valle
Storica, insegnante e ghostwriter
  • 31 ottobre 2020

Il torrone siciliano di mandorle

Quest’anno la tradizionale Fiera dei morti non ci sarà. La Giunta di Palermo ha destinato i fondi ad altri progetti strategici ed urgenti. Decisione giusta ma che rende ancora più triste la ricorrenza, amplificata dalle storie e dalle immagini che sono parte ormai della nostra memoria collettiva. Ma per non cadere nella paura e depressione si può fare ricorso ai ricordi.

"Ma i morti che ti portano?". I morti? Un brivido mi corse lungo la schiena, facendomi accartocciare nel mio grembiule blu con le striscette rosse sul braccio, mentre cercavo di capire di cosa stessero parlando i miei compagni di quarta elementare del Mamiani. Giunta da pochi mesi a Palermo non capivo il senso della domanda.

Con un moto di pietà provarono a spiegarmi, ma io rimasi ancora più incredula e rassegnati non poterono che dire ”mischina, niente i morti gli portano”. E niente infatti mi portarono. Durante i miei studi ho pensato a questo evento come una risposta alla paura ancestrale verso una natura diventata improvvisamente dormiente, ad una notte lunga, tetra e minacciosa, alla perdita definitiva ed insanabile degli affetti.
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La necessità di elaborare l’angoscia ed il lutto viene così mediata dalla gioia dei bambini. I piccoli, da sempre ritenuti fragili e costantemente in pericolo, diventavano così un canale di comunicazione con i defunti, non più esseri minacciosi ed invidiosi della loro vitalità, ma protettori prodighi ed affettuosi. Senza dimenticare il sacro culto degli antenati, numi protettori della famiglia ed origine di quello che siamo.

Ho ancora vivo il ricordo della fiera, anche se in famiglia si diceva che questa tradizione apparteneva ormai al “popolino”. All’Olivella era un susseguirsi di “ baracche” con giocattoli coloratissimi, un paese dei balocchi, contiguo al paese della cuccagna, ricolmo di ogni possibile declinazione del dolce. Giravo frastornata tenendo la mano di mia mamma, che commentava questo brulicare di persone e cose con accondiscendenza.

Guardavo la festa con tristezza, non avevo il coraggio di dire che a me piaceva tantissimo e che, nonostante il pericolo della
“grattugia”, era meglio dell’angoscia dei lumini accesi su foto seppiate di parenti e conoscenti, che all’improvviso sparivano nel nulla per non tornare più.

Nei "Racconti Quotidiani" di Camilleri la festa a casa sua è minuziosamente descritta, si coglie l’ansia, l’emozione e la gioia dello scrittore ritornato un "nicareddo".

Altri dettagli della fiera li ho ricevuti da conoscenti palermitani. Un commerciante, che ha partecipato per oltre quarant’anni anni (dall’età di sette), ha ancora negli occhi quella gente festosa che si affollava alla sua “baracca di giocattoli”, dove vendeva i carrettini siciliani, piccoli mobili ed altri giocattoli costruiti con il padre, oltre ad altri giochi.

La festa era un patrimonio comune, a cui poteva attingere la principessina che riceveva dalla mamma pittrice le pupe di zucchero e dal papà i giocattoli che il Banco di Sicilia donava ai figli dei dipendenti.

Certamente i piccoli nobili non scrissero le letterine, non provarono paura per la “grattata di piedi” come i bambini di quel “popolino”, nati e cresciuti nei quartieri antichi di Palermo, che chiedevano ai morti (o a chi per loro), per non metterli in difficoltà, cose utili come vestiti e scarpe nuove; salvo poi ricevere da nonne premurose giocattoli nascosti "casa, casa".

Tutti però, a prescindere dal ceto sociale, andavano poi a salutare e ringraziare al cimitero. Quella mattina del due novembre del primo anno a Palermo non trovai niente, ma in maniera del tutto inaspettata gli impiegati di mio padre, mossi a compassione verso le sue due figlie orfane della loro festa, ci portarono un cesto pieno di martorana e due pupe di zucchero alte mezzo metro raffiguranti un Orlando in armatura ed una bellissima ballerina in tutù.

Rimasi incantata e pretesi che fossero messe nella nostra camera, intimando a mia sorella più piccola di non azzardarsi a mangiarli. Cosa che puntualmente successe; infatti, di nascosto, da dietro, incominciò a rosicchiarli fino a che non crollarono miseramente. Quando vidi quello scempio la mia reazione fu come quella del “Furioso” ma ottenni che, per tutto il periodo che rimanemmo a Palermo, il due novembre ci fossero a casa pasta reale e pupe di zucchero.

Ripenso alla citazione di Montaigne, riportata da Camilleri: «La meditazione sulla morte, è meditazione sulla libertà, perché chi ha appreso a morire ha disimparato a servire».

I siciliani questo lo sanno e, nel trattare la morte come una festa, non ne sono più schiavi e servi.
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