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È il re della cucina sicula, ci facevi "u pani cu ciauro": perché il caciocavallo si chiama così

Vi raccontiamo qualche aneddoto della storia infinita del caciocavallo in Sicilia. Tra ricette e leggende che si tramandano a Palermo e nell'isola da tempi antichissimi

Alessandro Panno
Appassionato di sicilianità
  • 23 febbraio 2023

Caciocavallo Ragusano in fase di stagionatura

Tempo addietro, durante una delle mie incursioni nei mercati rionali (u mercatino per intenderci), mi soffermai, attirato dalla mia passione per i prodotti caseari, presso un vicchiareddu, che, in una bancarella, vendeva, oltre ai tipici pistuluna, olio e vino in pietra, anche una varietà di formaggi.

Mentre osservavo interessato, mi arrivò sulla punta di una mannaia una fettina di caciocavallo per poterla tastare. Così, con una ipersalivazione a tipo cane di Pavolov, che mi impediva di articolare per bene le parole, ringraziavo il vecchietto affermando che quel cacio era vero "troppo bello" e lui per tutta risposta mi disse, “n’cà... chisto è buono, mica avi quattro facci!”.

Devo aver fatto un viso stralunato, perchè il vicchiareddu si sentì in dovere di spiegarmi l’origine della sua affermazione. “Vossia nu intisi mai aviri 4 facci come u cascavaddu? Si rice di persona tinta!”.

In effetti riaffiorò nei miei ricordi questa espressione che avevo sentito qualche volta sulle labbra dei miei avi... ed a rafforzare la cosa, notai che in effetti il caciocavallo che avevo assaggiato proveniva da una forma a pera e non la classica a parallelepipedo.
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Mentre ero intento nelle mie elucubrazioni gastronomiche la mannaia si avvicino con un altro pezzo di formaggio, ”chistu avi quattro facci l’avi, ma tinto unnè!”.

Così appresi che di caciocavalli ce ne sono assai ma quelli principali sono due, Ragusano e di Godrano. Il primo prodotto a partire dal latte della vacche modicane (che producono latte solo quando hanno il vitellino accanto), con la pasta che tende ad essere sfogliata e spesso con una forma a pera, mentre il secondo fatto dal latte della vacca cinisara, con diversi gradi di stagionatura e dalla classica forma a parallelepipedo.

Così dopo aver fatto spesa grossa e ringraziato con un s’abbenerica il vecchietto, sono tornato a casa per degustare quello che avevo acquistato.

Alla fine u cascavaddu non è un semplice formaggio, è più un simbolo della produzione casearia sicula, e vanta una storia articolata che inizia in tempi antichissimi.

Senza fare gli storici allittrati, che a noi ci piace andare leggi, pare che, addirittura nel 500, Ippocrate, nei suoi scritti sulla preparazione del cibo, facesse riferimento all’abiltà del popolo greco nel preparare il “cacio”, e persino Plinio decantava le lodi del “butirro”, una sorta di antenato del caciocavallo, definendolo cibo delicatissimo.

Nel XV secolo il popolo Mongolo, era solito commerciare un tipo di formaggio, chiamato Kashkaval (da cui caciocavallo), che cominciava a cagliare già negli gli otri di stomaco di bue usati per il trasporto, grazie ai residui enzimatici ed al movimento ondulatorio degli equini.

Un’altra diceria storica afferma che il nome derivi dall’usanza, durante il regno di Napoli e successivamente delle due Sicilie, di imprimere sulle forme del cacio il simbolo un un piccolo cavallo come bollo fiscale.

Tuttavia una delle ipotesi più accreditate è che, semplicemente, le forme di caciocavallo, dopo essere state lavorate, venivano messe ad asciugare legate, con spago di saggina, a coppie, ed a cavallo dell’appizzatuma, un sorta di pertica di legno adatta allo scopo.

Figuratevi che du cornutieddo di Ferdinando di Borbone, volendo entrare in esplorazione avanzata tra le vesti della duchessa di Floridia, Lucia Migliaccio, usava regalarle forme di caciocavallo al posto delle solite, noiose ed inflazionate rose, ben conscio che, sia per uomini che per donne, la strada per arrivare al cuore passa sempre prima dallo stomaco.

Nel 1549 u cascavaddu divenne anche pietanza ufficiale della dieta clericale, entrando a far parte del menù delle suore del monastero di San Castrenze a Monreale. Ma a parte regnanti e prelati,quelli erano tempi in cui al popolino u pitittu ci faciva acito, ed il piatto domenicale era leccarsi la sarda.

Ecco allora che l’ingegno commerciale dei putiari trovò la soluzione inventando u pani cu ciauro. Per pochi soldi si permetteva alla povera gente di stricare con veemenza il pane caldo sulle forme di cascaavaddu insaporendo così il lievitato.

Alla faccia delle norme HACCP. Ma una delle ricette più apprezzate con il caciocavallo lo dobbiamo all’astuzia della moglie di un orafo in via Argenteria a Palermo. In un momento in cui le carte non passavano, la donna, volendo salvare le apparenze, mise a cuocere una fetta spessa di caciocavallo con spezie e aceto, il cui odore somigliava molto a quello del coniglio alla stimpirata, apannaggio riservato a categoria più abbienti.

Era nato il famigerato caciocavallo all’argentiera. Questo formaggio, tanto era il suo pregio, che era anche usato come merce di scambio, o per pagare dei debiti quando il contante era limitato. Persino Carmelo Traselli nel suo “alcuni calmieri palermitani del 400” e “Calmiere dei viveri al minuto a Palermo” fa una netta distinzione tra u cascavaddu vaccino e il cacio pecorino riferendosi al primo come formaggio di gran pregio e quindi dal più alto valore commerciale.

Presenza quindi abituale anche nelle mense e tavole altolocate, il caciocavallo, a causa del metodologia tipica di asciugatura, fu fautore del detto “fare la fine del caciocavallo”, riferendosi alla morte per impiccaggione. In tal senso appare piuttosto calzante la frase “famme truvà tante casecavalle”, che Ferdinando IV scrisse al cardinale Ruffo, alla fine del suo esilio forzato in Sicilia, indicandogli di impiccare i liberali.

Ricetta del caciocavallo all’argentiera (secondo mia nonna):

Ingredienti
- Una fetta di caciocavallo spessa a sentimento
- Mezzo bicchiere di aceto bianco
- Un cucchiaino di miele
- Olio di oliva
- Pepe a sentimento
- Uno spicchio d’aglio
- Origano a sentimento

Procedimento
Prendete il caciocavallo e insivatelo bene bene con l’olio, successivasmente cospergetelo di pepe. In una ciotola arriminate l’aceto bianco ed il miele. Quindi mettete il caciocavallo in una padella e cominciate a fare abbrustolire la superficie del cacio girandolo. Non appena vedete il formaggio cominciare ad ammorbidirsi sbacantate l’aceto ed il miele in padella assieme all’aglio schiacciato, e coprite con il coperchio per un minuto.

Non appena sarà tutto evaporato impiattate e spolverate di origano come se non ci fosse un domani.

Sedetevi, versate un bicchiere abbondante di vino, mettete vicino una pezzatura forte di pane (se non sapete cos’è la pezzatura forte andate a leggere il precedente pezzo) e levatevi il testale!
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