PERSONAGGI
Aveva fascino ed eleganza: chi fu l'unico amore della principessa di Lampedusa
Beatrice Mastrogiovanni Tasca di Cutò aveva un'eleganza innata. Una madre affettuosa ma anche molto possessiva si rivolgeva al figlio con nomignoli da donna
La principessa di Lampedusa con il figlio
Bice, come veniva chiamata in famiglia, donna colta e volitiva, dotata di charme ed innata eleganza (fu una delle prime donne a Palermo che ebbe l’ardire da giovane di mostrarsi indossando i pantaloni) esercitò una grande influenza su Tomasi.
Era la maggiore dei figli della principessa Giovanna Filangieri e del conte Lucio Mastrogiovanni Tasca e fu sempre molto legata alle sorelle Teresa, Lina, Giulia e Maria e al fratello Alessandro (Pia e il piccolo Lucio erano morti in tenera età).
Bice ebbe un’infanzia dorata, felice e protetta: la madre Giovanna fu sempre molto presente ed affettuosa e indimenticabili furono per i ragazzi Cutò (così come lo sarebbe stati per Giuseppe Tomasi) i lunghi periodi trascorsi nel palazzo settecentesco di Santa Margherita nella valle del Belice, con 300 stanze e Venaria, la tenuta di caccia.
Bice aveva un carattere molto forte e aveva una certa predisposizione per battute piuttosto taglienti nei confronti di chi non le andava a genio. La prima delle bellissime sorelle Cutò a convolare a nozze fu Teresa, impalmata dal barone Giuseppe Piccolo di Calanovella. Poco tempo dopo, la felicità della famiglia cominciò a incrinarsi, con il primo grave lutto familiare, la morte di Giovanna, nel 1891 a soli 45 anni: al marito Lucio affidò il compito di vegliare sulla famiglia.
Senza Giovanna la casa di Via Lincoln divenne vuota e fredda e così anche Beatrice, Lina e dopo qualche anno Giulia decisero di sposarsi. Nel suo testamento Giovanna aveva scritto: “Voglio che Beatrice non sia contraddetta in una sua simpatia e che si mariti secondo il suo pieno piacere. Il tempo che stesse in casa dopo la mia morte, non voglio che dipenda da altri che suo padre” e così Bice scelse in piena libertà di sposare Giulio Tomasi principe di Lampedusa e duca di Palma, erede di una celebre famiglia di santi e sante (come la venerabile Maria Crocifissa, che aveva ricevuto una lettera – indecifrabile - dal Diavolo in persona).
La vita matrimoniale si rivelò molto diversa da come Beatrice l’aveva sognata: Giulio era un marito distratto e libertino, con problemi patrimoniali. Dopo la morte della primogenita Stefania a soli tre anni per difterite, Beatrice cominciò allora a riversare tutto il suo affetto e le sue attenzioni sul piccolo Giuseppe che sarebbe sempre rimasto il più grande amore della sua vita.
Numerose fotografie ritraggono la madre e il figlio bambino (spesso vestito alla marinara, i capelli con taglio a scodella e frangetta) sempre insieme, spesso malinconici e in tenero atteggiamento. Beatrice nonostante il lutto, tornò presto alla vita mondana, nella Palermo Felicissima che ancora per poco avrebbe vissuto una fugace età dell’oro.
Nel 1901 i lettori della rivista palermitana Flirt invitati ad eleggere la più bella tra le dame della città premiarono Franca Florio per la sua bellezza, Teresa Cutò per il suo fascino e Beatrice Cutò per il suo naso! Il primo lustro del nuovo secolo vedeva la nascita della Primavera Siciliana e della Targa Florio: Beatrice frequentava una società brillante, seppur impegnata in occupazioni assolutamente elitarie e frivole…le dame palermitane vestivano abiti dai colori chiari e indossavano enormi cappelli velati, si davano appuntamento al teatro dell’Opera (dove ostentavano costosi gioielli e abiti sartoriali francesi) ai balli in maschera, organizzavano recite e giochi a squadre, sfilate su carri ricoperti di fiori lungo la via Libertà per la Festa della Zagara o per il Corso dei Fiori ( importato dal carnevale di Nizza).
Nel 1906 Beatrice si recò su un landò decorato da centinaia di fresie bianche alla Festa della Zagara: una fotografia la ritrae tutta vestita di bianco, mentre il piccolo Giuseppe che aveva 10 anni, le siede di fronte. Non mancavano i balli, le feste e le merende anche per i bambini; eventi che Giuseppe, schivo e taciturno, così come la compagnia dei coetanei, amava poco. Passava gran parte del suo tempo leggendo moltissimo.
Il cugino Fulco di Verdura, famoso disegnatore della Maison Chanel, stupito per il successo del romanzo “Il Gattopardo”, avrebbe affermato incredulo di ricordare Tomasi come un bambino grasso, goffo, solo e triste. “Ero un ragazzo cui piaceva la solitudine, cui piaceva di più stare con le cose che con le persone” scriverà di sé stesso Tomasi. Nonostante le risorse limitate dei Lampedusa, Giulio e Beatrice partecipavano alla vita mondana in cui lei brillava, perché Beatrice era ricca di suo e anche per la generosità dei loro amici, i Florio.
I Palma per un certo periodo frequentarono molto Casa Florio: soggiornarono per esempio nel 1902 a Favignana (dove ebbero modo di incontrare anche l’ex imperatrice di Francia Eugenia, vedova di Napoleone III, giunta nell’isola col suo yacth per assistere alla mattanza) e furono loro ospiti a Parigi.
Da diversi libri sull’epoca pare che nonostante Ignazio fosse noto come tutti i Florio per la sua generosità, per un periodo ebbe una storia con l’esuberante Beatrice, che mal sopportava il marito noioso e bigotto.
Scriveva Tina, moglie di Pip Whitaker, nel suo diario: “17 Marzo 1906, ho notato che Bice indossava il braccialetto che le ha regalato Ignazio Florio. Povera Franca”. Anche questi anni, volati senza grandi preoccupazioni, terminarono bruscamente nel Dicembre del 1908, con il terribile terremoto di Messina: la dolcissima sorella Lina, la figlia preferita di papà Lucio, venne ritrovata morta, parecchi giorni dopo il cataclisma, sotto le macerie della sua abitazione, insieme al marito.
Riuscì a salvarsi, miracolosamente, solo il figlio Filippo di 16 anni che per molto tempo rimase sotto shock. Per Bice la morte di Lina fu un dolore inconsolabile, qualcosa in lei cambiò per sempre. Giuseppe la ricordava "singhiozzare seduta in una grande poltrona nel salone verde nella quale nessuno si sedeva mai”. Solo due anni dopo sui Cutò si abbatteva un’altra tragedia, ancora più lacerante: la sconvolgente morte di Giulia, uccisa brutalmente dal suo amante.
La storia ebbe una forte risonanza in tutto il Regno d’Italia. Giulia, che aveva sposato il conte Romualdo Trigona di Sant’Elia, sindaco di Palermo, era infatti anche dama di corte della Regina Elena.
Dopo i numerosi tradimenti del marito aveva intrecciato una relazione molto passionale con un ufficiale della cavalleria Vincenzo Paternò del Cugno.
Bice aveva cercato - invano - di convincere la sorella a porre fine alla scandalosa liaison, diventata presto di pubblico dominio. Vincenzo era un uomo molto possessivo, faceva a Giulia continue e asfissianti richieste finanziarie per saldare i debiti di gioco, era violento verbalmente e fisicamente: una volta l’aveva persino schiaffeggiata al Quirinale.
La donna, decisa a troncare la relazione, aveva incontrato l’amante al Rebecchino, uno squallido albergo vicino alla stazione Termini, ma Vincenzo dopo quell’ultimo incontro d’amore l’aveva pugnala a morte più e più volte, per poi tentare di uccidersi sparandosi alla testa. Beatrice devastata dalla perdita della sorella aveva cercato di trascorrere più tempo possibile lontana dalla Sicilia.
Un’epidemia di colera scoppiata a Palermo nel 1911 le fornì una buona scusa alla famiglia per trasferirsi in Toscana per qualche mese e poi a Roma. Tornata in Sicilia, l’anno successivo Bice fu costretta a presentarsi come testimone al processo contro del Cugno, che seppur tremendamente sfregiato si era purtroppo salvato dal tentativo di darsi la morte.
La principessa aveva dovuto ingoiare anche il rospo di veder diffuse sui giornali le scabrose lettere d’amore dei due amanti. Vincenzo Paternò venne condannato all’ergastolo, ma avrebbe ricevuto la grazia 30 anni, dopo da Mussolini.
Per poter affrontare tanto dolore, per riuscire a sopportare la rabbia e la disperazione Beatrice divenne severa, possessiva, autoritaria: riversò sul figlio attenzioni premure, pressioni e controlli quasi dispotici.
Il giovane Tomasi era cresciuto distante dal padre retrivo - del quale non condivideva le passioni - e per quanto adorasse la madre, soffriva per questa opprimente presenza, per questo affetto soffocante: Bice si rivolgeva addirittura a Giuseppe utilizzando nomignoli al femminile, anche in pubblico: "Pony mia cara e bona" lo chiamava, forse confondendolo con la sua Stefania o cercando di riportarla in vita… Per sfuggire all’asfittica atmosfera familiare e per accontentare il padre che sognava per lui la carriera diplomatica, il giovane Tomasi decise di studiare giurisprudenza, lasciando la Sicilia e spostandosi tra l’Università di Napoli, di Roma e di Genova.
Nel 1924, mentre Giuseppe era lontano, Bice apprese con sgomento che il fratello Alessandro - detto il principe rosso per aver sposato la causa socialista - dopo aver dilapidato il suo immenso patrimonio (morirà in miseria nel 1943), aveva svenduto anche l’amatissimo palazzo di Santa Margherita (di cui Bice era proprietaria con lui per metà), il luogo in cui i ragazzi Cutò avevano trascorso un’infanzia felice e in cui Bice aveva passato ogni estate con Giuseppe.
Beatrice amava tanto quella casa, al punto che a volte lei e Giuseppe, riveriti da servitori fedeli, vi avevano vissuto a volte anche in inverno: “Attorno a Santa Margherita si raggruppano molti miei ricordi…tutti cruciali”, avrebbe scritto Giuseppe. Poi c’era stata anche la morte improvvisa di Maria, la sorella più piccola, trovata ormai priva di vita nel suo letto: fragile creatura, spesso triste, malata di nervi, non si era mai sposata e aveva vissuto a lungo col padre Lucio. A causa di una grave forma di depressione era diventata dipendente dalla morfina.
La madre Giovanna aveva scritto nel suo testamento: “La raccomando a tutti…cerchino tutti di educarla e correggerla, sempre meno dure con lei”. A Palermo si mormorava che si fosse avvelenata. Per fuggire da tanto dolore e da tanta infelicità Bice tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta viaggiò a lungo per l’Europa con il figlio Giuseppe.
Nel 1932 Tomasi che era ormai un uomo fatto di 35 anni, decideva finalmente di sposarsi ed emanciparsi: temendo il giudizio della madre, le scrisse il giorno stesso delle sue nozze, per comunicarle solo l’imminente decisione: "È bella, è un angelo di dolcezza e di bontà”, aggiunse, descrivendo sua moglie, la baronessa lettone Alessandra Wolff Von Stomersee detta Licy, che era in realtà molto lontana dai canoni femminili siciliani. Figlia della cantante lirica modenese Alice Barbi, seconda moglie del prozio Tomasi della Torretta, e di un barone lettone, Licy era più vecchia di Giuseppe di un paio d’anni, era ortodossa, ed era al secondo matrimonio, dopo il divorzio dal barone omosessuale Andrè Pilard Von Pilchau.
Era una personalità di rilievo nell’ambito della psicologia (una delle prime freudiane) conosceva molte lingue, era appassionata di letteratura; alta, con spalle larghe e forti, era dotata di una grazia austera. Il 29 Agosto, allarmato per non aver ricevuto risposta, nonostante fossero trascorsi 5 giorni, Giuseppe tornava a scrivere “Spero ogni giorno, di ricevere una vostra lettera, ve ne prego, lasciatevi guidare dal cuore e dal vostro amore per me.”
Decideva allora di portare Licy a Palermo, per presentarla alla famiglia, ma l’incompatibilità tra lei e Beatrice (che nel 1934 sarebbe rimasta vedova) era stata subito evidente. Le due donne non avevano un carattere facile e non avrebbero mai potuto vivere sotto lo stesso tetto. Beatrice non tollerava intromissioni, ma il matrimonio era contrastato anche da Giulio e nemmeno i cugini Piccolo, i figli di Teresa, molto legati a Giuseppe, amavano molto Licy: “l’orsa baltica”, la chiamavano di nascosto.
Alessandra non si trovò bene in Sicilia e preferì tornarsene da sola nel suo amato castello a Stomersee, mentre Giuseppe rimase con la madre, nel vecchio palazzo di famiglia, dormendo nella stanza dove era venuto al mondo, nel lettuccio dove aveva sempre dormito da solo per tutta l’infanzia fino all’età adulta. Giuseppe e Licy vissero separati per dieci anni: lui in estate la raggiungeva a Stomersee e lei in inverno stava con lui a Palermo o più spesso a Roma.
Il matrimonio tuttavia riuscì a resistere alle intemperie della vita, alimentato da un fitto epistolario in cui i due sposi comunicavano in francese. La coppia si riavvicinò solo durante la guerra: nell’Aprile del 1943 ad Alessandra le autorità sovietiche confiscarono il castello col suo parco e negli stessi giorni il palazzo Lampedusa venne mortalmente bombardato.
Entrambi i coniugi, rimasti orfani delle loro amate dimore, riavvicinati da questi tragici eventi, decisero di vivere insieme a Palermo, in un palazzo con le finestre sul mare, che sorgeva nella stretta via Butera.
“È un tetto per ripararmi, ma non casa”. Scriverà Giuseppe “La nostra casa la amavo con abbandono assoluto.” Bice comprendendo di aver vinto tutte le battaglie ma di aver perso la sua guerra: stanca, sola e molto malata, nel 1945 decideva di ritirarsi in solitudine nel palazzo in rovina in via Lampedusa e qui trascorreva il suo ultimo anno di vita, scegliendo di morire a casa sua, tra i pochi oggetti sopravvissuti alla distruzione.
Beatrice Mastrogiovanni Tasca si spense a Palermo il 23 Luglio del 1946, a 76 anni; non era più la principessa di Lampedusa, ma una cittadina qualunque perchè solo un mese prima, al Referendum del 2 Giugno, il popolo italiano aveva scelto la Repubblica.
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