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Simbolo di un paradosso siciliano: (forse) c'è ancora tempo per salvare la Torre di Salto d’Angiò

Se si volesse definire la condizione della Torre di Salto d’Angiò, diremmo senza alcun timore che è grottesca, e cioè: deforme e innaturale, paradossale e inspiegabile

  • 24 ottobre 2020

La Torre Salto d'Angiò di Aragona

Se si volesse definire la condizione della Torre di Salto d’Angiò, diremmo senza alcun timore che è grottesca; e cioè – da dizionario - deforme e innaturale, paradossale e inspiegabile, tale da suscitare reazioni contrastanti, dal riso all’indignazione.

Un riso amaro, che sboccia a labbra spente per l’incuria che il tempo dell’uomo ha imposto a questo luogo di non comune bellezza. A vederla da lontano, in un’alba rugiadosa che come un talco sfrangia i contorni delle cose, sembra immersa in un pezzo di bellissima campagna toscana, nel verde inatteso di una dolce collina, segnando di nobiltà il paesaggio d’intorno.

Ma è un’illusione dello spirito, la metafora di un desiderio irrealizzato, perché siamo in Sicilia e dei fasti di questa Torre rimane solo una eco tragica.

Per scovarla, si può percorrere la SS 189 (Palermo – Agrigento), e, dopo circa 25 Km, imboccare il bivio “Muxarello” che costeggia il fiume Platani e conduce a Santa Elisabetta; oppure, ed è un percorso più lungo ma di maggiore suggestione, da Agrigento arrivando a Raffadali e da lì svoltare per Santa Elisabetta, senza entrare in paese, seguendo le indicazioni per “Muxarello”.
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Inizia una strada poco frequentata, fatta di tornanti e di paludamenti, di zone d’ombra e di accessi di luce, di siepi rifinite e di vecchie masserie abbandonate, fra muretti bassi e rigagnoli di acqua solforosa. È ancora la campagna bellissima di Aragona che insiste fino a Sant’Angelo Muxaro, un pezzo di Sicilia arcaica che resiste inviolata e preziosa.

Alla Torre di Salto d’Angiò si arriva deviando a un sentiero di terra battuta, in lieve pendenza, che porta facilmente sul posto intercettato dallo sguardo lungo il cammino. Costruita su un banco di arenaria, è situata in posizione strategica sulla sommità di una collina che domina l’intera vallata del feudo Muxaro dove, proprio sotto, vi scorre il suggestivo fiume Platani; e però l’immagine che offre è quasi perturbante, cogliendo l’immensa bellezza della struttura macerata dall’incuria e dal degrado, inghiottita dalla vegetazione, ridotta a un’idea di bene violato ai limiti del collasso strutturale.

La sua storia è legata alla potente famiglia normanna dei Chiaramonte, proprietari anche dell’antico feudo Muxaro, ma forse la sua storia potrebbe essere ancora più antica e risalire a un insediamento romano o bizantino.

In passato il feudo Muxaro faceva parte del territorio di Sant’Angelo Muxaro; gli antichi feudi di Aragona erano invece Diesi, confinante con il feudo Muxaro e su cui si affaccia anche la Torre, Ranciditi e Maccalube. La struttura, dalla forma rettangolare, è inglobata in un casale costruito alla fine del XVIII sec. dalla famiglia Morreale.

La sua imponente mole si erge al centro di tre cortili, dove un tempo si trovavano gli ambienti della masseria e la parte centrale termina con merli rettangolari e presenta tre ordini finestrati di gusto gotico: il primo e il terzo con finestre bifore a tutto sesto ed il secondo con monofore a sesto acuto. Nella zona, secondo quanto riportato dalle Linee Guida del piano paesistico regionale, sono stati individuati anche frammenti ceramici di età romana.

La Torre è attualmente di proprietà di Salvatore Palmeri, figlio di Giuseppe e della baronessa Scalfari di Vittoria, che ne possiede anche le terre intorno.

Oggi, la fortificazione, sebbene manifestazione di un enorme patrimonio storico, artistico, architettonico e culturale, versa in stato di abbandono denunciato solamente da un gruppo attivo di giovani aragonesi che si sta occupando di rivalorizzarne l'importanza, creando incontri di discussioni e proposte concrete, nel tentativo di riportare in luce un simbolo degno di importanza della cultura locale.

Che non sia accaduto nulla, e cioè che il privato e le istituzioni pubbliche locali e di tutela del patrimonio non abbiano prodotto azioni o favorito interventi, è provato dal recente furto dello stemma baronale dalla Torre.

«L’evento – come scrive il professore Calogero Saverio Vinciguerra, docente di Pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze - rappresenta l’ennesima mortificazione del nostro territorio, tra l’altro già fiaccato e svilito dall’incuria, dall’abbandono e dal totale disinteresse dei più; operazioni come quella del furto si rivelano fin troppo facili vista la generale assenza di adeguate misure di sorveglianza dei nostri beni culturali».

Lo stemma marmoreo in questione infatti, è stato trafugato qualche settimana fa dalla facciata dello storico edificio conosciuto come “Salto d’Angiò”, nonostante fosse murato a una cospicua altezza. Il tutto eseguito, previo l’allestimento di un acrobatico "ponteggio" adatto allo scopo, con apparente disinvoltura.

Questo ignobile atto rappresenta per la storia del territorio e per la identità siciliana una perdita di straordinaria gravità, in quanto quel reperto, nonostante il passaggio dei secoli, continuava a raccontarci quello che è stato il nobile e glorioso regno di Sicilia, narrandoci molto di più di quanto crediamo di conoscere delle vicende storiche di cui la nostra terra è stata protagonista.

A lanciare un grido d’allarme, dopo la vicenda del curioso furto, anche l’avvocato Adele Falcetta, presidente della sezione agrigentina di Italia Nostra, che ha insistito affinché «gli Enti pubblici competenti si attivino, attraverso le opportune interazioni con i privati proprietari, per pervenire all’immediata messa in sicurezza della costruzione, quindi al suo restauro».

Anche il Fai ha cercato di porre l’attenzione sul bene, inserendolo fra i luoghi del cuore, e anche in questo caso gli appelli sono caduti nel vuoto. Pare che nessuno si interessi a questa meravigliosa Torre, un tassello del ricchissimo mosaico che compone la storia della Sicilia, che dovrebbe con ogni forza essere preservata e valorizzata come genius loci di una precisa identità culturale.

Il paradosso, anch’esso grottesco, è che la sola persona che davvero si è interessata alla Torre di Salto d’Angiò e ne ha compreso l’enorme valore è proprio l’autore del furto dello stemma, che si è arrampicato con coraggio, di notte, nel murmure di quelle campagne, portando con sé un pezzo di storia che non troveremo più.
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