CURIOSITÀ
"Sangu miu" lo diceva persino Dante: quello che non sai di un detto (non solo) siciliano
È uno dei modi dire che caratterizzano l'infanzia in Sicilia. Una frase che nonni e zii dicono ai più piccoli. La sua origine è "gloriosa" e risale addirittura al Sommo Poeta
Dante Alighieri
Un detto carico di pathos degno delle più grandi tragedie greche, che dà migliore resa in caso di caduta accidentale o di tumpuluni seri di fratelli o sorelle più grandi. E mentre piangi agonizzante o mugugni, ti ritrovi parte di un un gruppo sanguigno di qualche genere che ignori, piastrine e globuli inclusi.
Ciò che rende questo detto siciliano così particolare, oltre al richiamo ematico, è anche la stretta connessione alla mimica facciale di chi lo pronuncia: occhi sbarrati e mano sinistra e destra che sostengono entrambe le guance. Nel frattempo le labbra, quasi a cassa di risonanza, pronunciano quel Sanguuuu miuuuuu allungando le vocali anche per 5 secondi e raggiungendo senza difficoltà i 70 decibel.
In entrambi i casi, una volta scandito, sembra quasi avvenire una suggestione: la ferita o il dolore fanno quasi meno male e un senso di benessere viene amplificato.
Ma perché proprio il sangue? Il peculiare riferimento del detto siciliano, al pari del “Sangò” palermitano, indica un legame saldo, profondo e intimo tra due persone che, appunto, chiama in causa quello genetico; di sangue. Legame di un’espressione che ritroviamo simile, anche se in latino, in due opere letterarie di straordinaria grandezza: l’Eneide di Virgilio e la Divina Commedia di Dante Alighieri.
Nell’opera di Virgilio, è presente all’interno dei versi del VI Libro, dove Anchise profetizza a Enea la grandezza dell’Impero romano e la sua progenie: «Tuque prior, tu parce, genus qui ducis Olympo; proice tela manu, sanguis meus! (E tu per primo, perdona, che hai il sangue dell'Olimpo, getta le armi dalla mano, o sangue mio)».
Il “sangue mio”, in questo caso, è riferito a Giulio Cesare che dovrebbe dare il buon esempio deponendo le armi.
Nella Divina Commedia, invece, ci troviamo nel Canto XV del Paradiso nel Cielo di Marte, dove tra le anime dei combattenti per la fede c’è Cacciaguida, nobile crociato e antenato di Dante.
L’immagine che ci presenta il sommo vate è quella di una luce in discesa e che, una volta raggiunto il poeta lo saluta con «O sanguis meus, o superinfusa gratia Dei, sicut tibi cui bis unquam coeli ianua reclusa? (Oh, sangue mio, oh grazia divina infusa largamente in te, a chi come a te per due volte fu mai aperta la porta del cielo?)».
Un’espressione dal fascino immortale che, sia in latino o in siciliano con tanto di mimica, è in vigore ancora oggi a ‘mo di legge affettiva, alla quale non sfuggono orecchie e subito dopo le membra (per l’amorevole stretta) di piccoli e grandi.
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