CINEMA E TV
Una misera e piccola umanità
L'amico di famiglia
Italia, 2006
di Paolo Sorrentino
con Giacomo Rizzo, Laura Chiatti, Fabrizio Bentivoglio, Gigi Angelillo, Emiliano De Marchi
Ai margini di un certo vivere sano (definizione che, stando alle cronache d'attualità, prevede qualche gesto di follia ogni tanto) si trovano certe figure squallide che si vorrebbe ignorare ma che invece si inseriscono nel contesto sociale “normale” e con la loro presenza, molto discutibile dal punto di vista etico, colmano disavanzi e realizzano desideri, anche se dopo il conto da pagare (in senso letterale) per i poveretti che, purtroppo per loro, si trovano a dover avere a che fare con costoro, non sarà di certo poca cosa.
Se poi questi figuri sono anche dei “casi” umani, con delle connotazioni sui generis, ecco che un loro ritratto può fare da spunto per un soggetto narrativo di un certo interesse. E, aggiungiamo noi, diventare un bel film, come nel caso dell’ultima fatica di Paolo Sorrentino, "L'amico di famiglia", titolo della pellicola presentata alla Cinquantanovesima edizione del Festival di Cannes. Gli estimatori del regista napoletano, giunto al suo terzo film (dopo il pluripremiato “L’uomo in più” del 2001 e “Le conseguenze dell’amore” del 2004 che tanti riconoscimenti ha valso a Toni Servillo, interprete principale del lungometraggio) non rimarranno delusi.
Ecco allora che la fredda architettura di Sabaudia, desolata e inquietante al tempo stesso (splendida la fotografia di Luca Bigazzi), persa fra spazi inutilmente ampi (pieni di vuoti incolmabili), limitati da estese pareti curvilinee per nulla confortanti di tonde costruzioni anche queste smarrite, riempie lo schermo raccontandoci di tutta la miseria d’animo di quella figura tanto torva quanto penosa, che lì cammina frettolosamente con fare da alacre topo di fogna (e d’altronde le fogne dell’usura sono i luoghi di sua pertinenza), sempre con un misterioso sacchettino di plastica bianca in mano. Dicevamo di ampi spazi persi, come parimenti lo è, smarrita, l’umanità che lì si muove nelle piccole miserie di un vivere quotidiano di provincia, dove cerimonie ed esigenze varie, dalla festa di matrimonio al mutuo per la casa ad altro ancora, si realizzano grazie ai prestiti offerti dal laido usuraio dell'Agro Pontino Geremia de' Geremei, interpretato magistralmente da Giacomo Rizzo.
Il volto singolare dell’attore, maschera espressiva ricca di sfumature (lo sgraziato personaggio ora sordido e malvagio ora degno di pietà), tanto ci racconta di questo vecchio ossessionato dai soldi, dalla madre e dal sesso. Sempre molto attento ai suoi affari, il misero figuro, che non conosce assolutamente l’amore, rimarrà in balia della sbandata che lo travolge per la giovane e bella Rosalba (interpretata da Laura Chiatti). Accanto a lui, troviamo in qualità di amico, l’unico, Gino, un tipo fissato col genere country, cavalli compresi, il cui sogno è di andare a vivere in America, interpretato da Fabrizio Bentivoglio, a suo agio nella giacca tutta frange del tipo.
Belle le musiche nella loro stranezza, e singolari i dialoghi. Quando non è Geremia a pronunciare certe frasi, certe battute talvolta suonano un po’ false, e ancora magari qualche inquadratura è di troppo (nella sequenza iniziale del film ma anche nella seconda parte) conducendo verso direzioni poi poco sviluppate. Ciò non toglie però che siamo davanti all’opera di un artista, un poeta dell’immagine, espressione di quel rinnovamento del linguaggio cinematografico del quale sono anche protagonisti oggi in Italia, ognuno col proprio estro, altri due giovani registi, Emanuele Crialese e Matteo Garrone.
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