CINEMA E TV
"The Fast and the Furious", in Giappone ma col motore spompato
The Fast and the Furious 3: Tokyo Drift
U.S.A., 2006
di Justin Lin
con Lucas Black, Nathalie Kelley, Brian Tee, Sonny Chiba
Rombi di motori supertruccati, bolidi luccicanti che lasciano scie di fuoco sull’asfalto, martellanti e audiolesivi ritmi dance e hip hop, modelle dalle minigonne inguinali che si strusciano sulle carrozzerie, non manca proprio nulla: tutto l’immaginario cool e ultrafighetto in cima ai desideri d’ogni adolescente trendy e rapper che si rispetti si è dato appuntamento sul palcoscenico di “The Fast and The Furious: Tokyo Drift”, terzo capitolo della saga dei corridori scavezzacollo inaugurata da Rob Choen alla regia e da Vin Diesel al volante ben cinque anni fa.
Dopo il seguito “2 Fast 2 Furious”, diretto da John Singleton, in cui Paul Walker e Tyrese Gibson si davano da fare a colpi di acceleratore tra le assolate spiagge di Miami, quest’ultimo capitolo, a minor copertura di budget, è affidato al giovane regista taiwanese impiantato in America Justin Lin e a un cast prevalentemente composto d’esordienti. Cambia la latitudine, e con essa l’impostazione da dare al film: niente più venature poliziesche, ma obiettivo puntato sullo sbandamento e il disagio adolescenziale.
Si tratta di una strana disciplina che si esegue su piste a curve strettissime (vanno bene i tortuosi sentieri di montagna o anche le autorimesse a più piani) da percorrere a tutta velocità: si tira il freno a mano, si va in controsterzo e, se il veicolo non si mette a girare come una trottola su se stesso, il gioco è fatto. Dopo i primi, prevedibili, disastri Sean passa sotto le ali protettrici del meccanico Han, diventa parecchio bravo, sconfigge un arrogante figlio di yakuza (Brian Tee) e gli soffia pure la ragazza (una nippo-australiana niente male, interpretata dall’esordiente Nathalie Kelley).
Nessun stereotipo sul Sol Levante è tralasciato – taciturni yakuza biancovestiti, elefantiaci lottatori di sumo, succinte gals giapponesi, sushi alla mensa scolastica – in questo racing movie a innesco istantaneo che brucia subito come il gasolio, si dimentica facilmente come la cintura da allacciare ed è già pronto per essere sorpassato dalla prossima moda esotica. Certo, ci sono le corse iperadrenaliniche e ipercinetiche, ma anche il più grande appassionato e feticista delle quattro ruote sentirebbe la necessità di premere il fast forward per saltare tutte le sequenze prive di azione, stucchevoli zavorre riempite con indagine sociale da quattro soldi e psicologie tagliate con l’accetta (il buono, la bella, il cattivo, l’amico rapper piccolo e nero, ma simpaticone).
La trama è solo un pretesto, si dirà, per un prodotto esclusivamente votato all’enterteinment, e la regia di Lin (reduce dal raccapricciante “Annapolis”) è in folle, ma fa il suo dovere quando serve. Sarà, ma il film è, sotto l’apparenza luccicante e giovanilistica, stanco e vuoto, vecchio nello spirito e nell’impostazione. Per chi ha voglia di vedere corse al cento per cento asiatiche si consiglia piuttosto “Initial D” di Andrew Lau e Alan Mak con Jay Chow e Antony Wong (che però non è uscito in Italia). Da “Tokyo Drift” sgommare alla larga.
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