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"The Fast and the Furious", in Giappone ma col motore spompato

  • 7 agosto 2006

The Fast and the Furious 3: Tokyo Drift
U.S.A., 2006
di Justin Lin
con Lucas Black, Nathalie Kelley, Brian Tee, Sonny Chiba

Rombi di motori supertruccati, bolidi luccicanti che lasciano scie di fuoco sull’asfalto, martellanti e audiolesivi ritmi dance e hip hop, modelle dalle minigonne inguinali che si strusciano sulle carrozzerie, non manca proprio nulla: tutto l’immaginario cool e ultrafighetto in cima ai desideri d’ogni adolescente trendy e rapper che si rispetti si è dato appuntamento sul palcoscenico di “The Fast and The Furious: Tokyo Drift”, terzo capitolo della saga dei corridori scavezzacollo inaugurata da Rob Choen alla regia e da Vin Diesel al volante ben cinque anni fa.

Dopo il seguito “2 Fast 2 Furious”, diretto da John Singleton, in cui Paul Walker e Tyrese Gibson si davano da fare a colpi di acceleratore tra le assolate spiagge di Miami, quest’ultimo capitolo, a minor copertura di budget, è affidato al giovane regista taiwanese impiantato in America Justin Lin e a un cast prevalentemente composto d’esordienti. Cambia la latitudine, e con essa l’impostazione da dare al film: niente più venature poliziesche, ma obiettivo puntato sullo sbandamento e il disagio adolescenziale.

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Sean (Lucas Black) è un ragazzo che ha le corse nel sangue, ma possiede pure qualche problema di autocontrollo e finisce sempre per accettare sfide alla “Gioventù bruciata” e per distruggere qualunque cosa finisca per intralciarlo durante il percorso. Acciuffato dalla polizia, non ha altra scelta per evitare la galera che trasferirsi in Giappone dal padre, il quale vorrebbe togliere i grilli automobilistici dalla testa del ragazzo. Dalla padella alla brace, perché Sean, sin dal primo giorno di università nipponica, viene a contatto con un giro di corridori clandestini che praticano il “Drift Racing”.

Si tratta di una strana disciplina che si esegue su piste a curve strettissime (vanno bene i tortuosi sentieri di montagna o anche le autorimesse a più piani) da percorrere a tutta velocità: si tira il freno a mano, si va in controsterzo e, se il veicolo non si mette a girare come una trottola su se stesso, il gioco è fatto. Dopo i primi, prevedibili, disastri Sean passa sotto le ali protettrici del meccanico Han, diventa parecchio bravo, sconfigge un arrogante figlio di yakuza (Brian Tee) e gli soffia pure la ragazza (una nippo-australiana niente male, interpretata dall’esordiente Nathalie Kelley).

Nessun stereotipo sul Sol Levante è tralasciato – taciturni yakuza biancovestiti, elefantiaci lottatori di sumo, succinte gals giapponesi, sushi alla mensa scolastica – in questo racing movie a innesco istantaneo che brucia subito come il gasolio, si dimentica facilmente come la cintura da allacciare ed è già pronto per essere sorpassato dalla prossima moda esotica. Certo, ci sono le corse iperadrenaliniche e ipercinetiche, ma anche il più grande appassionato e feticista delle quattro ruote sentirebbe la necessità di premere il fast forward per saltare tutte le sequenze prive di azione, stucchevoli zavorre riempite con indagine sociale da quattro soldi e psicologie tagliate con l’accetta (il buono, la bella, il cattivo, l’amico rapper piccolo e nero, ma simpaticone).

La trama è solo un pretesto, si dirà, per un prodotto esclusivamente votato all’enterteinment, e la regia di Lin (reduce dal raccapricciante “Annapolis”) è in folle, ma fa il suo dovere quando serve. Sarà, ma il film è, sotto l’apparenza luccicante e giovanilistica, stanco e vuoto, vecchio nello spirito e nell’impostazione. Per chi ha voglia di vedere corse al cento per cento asiatiche si consiglia piuttosto “Initial D” di Andrew Lau e Alan Mak con Jay Chow e Antony Wong (che però non è uscito in Italia). Da “Tokyo Drift” sgommare alla larga.

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