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“Niente da nascondere”: la realtà prima di tutto

  • 17 ottobre 2005

Niente da nascondere (Cachè)
Francia/ Austria/ Germania/ Italia, 2005
Di Michael Haneke
Con Daniel Auteuil, Juliette Binoche, Annie Girardot

Per l’austriaco (ormai naturalizzato francese) Michael Haneke, la ricerca della tranquillità è un eterno dilemma. Possiamo considerare questo regista soprattutto come un efficace narratore degli sconvolgimenti emotivi del quotidiano, dei misteriosi sommovimenti che agitano ogni esistenza individuale infiltrandosi, con minacciosa violenza, nel privato. La minaccia può provenire dall’esterno, come in “Funny Games” o nell’apocalittico “Il tempo dei lupi”, per poi implodere in una dimensione privata che mette a dura prova ogni paradigma interiore, ogni sicurezza sociale. Haneke ostenta un pessimismo glaciale, come se la stagione dell’inverno per lui durasse tutta la vita, come se la neve non si sciogliesse mai al sole, come se il turbamento fosse destinato ad installarsi per sempre dentro i suoi personaggi vittime e carnefici di una realtà troppo umana. Con il suo ultimo film, “Niente da nascondere”, il nostro si è portato a casa (assai meritatamente) la Palma per la migliore regia a Cannes, una prova d’indiscutibile livello, apprezzabile per raffinatezza ed eleganza. La sceneggiatura di questo film è elaborata fin nei minimi dettagli, la scrittura è sorprendente ed è in grado di condurci sulle soglie di un fitto mistero esistenziale. Questo regista che viene dal nord, approda in una città come Parigi portandosi dietro una consapevolezza autorale ed un'originale, tagliente lucidità espressiva. Quella lucidità che i suoi personaggi evidentemente non posseggono. In “Niente da nascondere”, è una famiglia ad essere al centro della vicenda, con George (un magistrale Daniel Auteuil), giornalista che conduce un apprezzato programma di critica letteraria, e con la moglie (che ha il volto di una maiuscola Juliette Binoche), anche lei nel mondo dell’editoria.

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Poi c’è il figlio della coppia, un ragazzo introverso e solitario fino all’afasia. L’incipit descrive in piano sequenza l’habitat di questo bel gruppo di famiglia borghese per poi farci scoprire, con un sorprendente fast forward che lascia senza fiato, che la sequenza è il contenuto di una videocassetta che George continua a guardare. La tranquillità dei protagonisti è più volte interrotta dall’arrivo per l'appunto di queste misteriose videocassette, con immagini spiate dai loro movimenti giornalieri, e accompagnate da alcuni infantili, inquietanti disegni. Ad un certo punto, George prova a ribellarsi, tentando di andare in fondo alla faccenda, e cercando di accumulare più indizi possibili. Così, il passato e il presente, privato e collettivo si mescolano, riportando alla luce un trauma infantile legato ai drammatici fatti di sangue della guerra d’Algeria degli anni ’60. Così l’incoscienza provoca il rimorso e la paura fa i conti con l’orrore della Storia. Evocando tutto questo, il film ci regala una delle sequenze di suicidio più sconvolgenti degli ultimi anni, con un algerino perseguitato che si taglia la gola con un rasoio di fronte all’attonito George. Nel film c’è anche una figura di madre, quella del conduttore, interpretata da Annie Girardot. Non raccontiamo altro dell’intreccio, limitandoci a rilevare che Haneke, con quest’ultimo film, si è avvicinato all’intensità delle sue prime prove, “Benny’s video” e “71 frammenti di una fenomenologia del caso”, per asciuttezza e piglio antiretorico nel mostrare una violenza sottile ed impalpabile che fa esplodere istinti primordiali e nevrosi contemporanei.

Accadeva pure nel suo “Storie”, incompleto racconto di viaggi quotidiani, film che sembra imparentato con “Niente da nascondere”. E non certo per la comune presenza della Binoche, ma perché anche in questa occasione Haneke gioca di sottrazione: la sceneggiatura di “Storie”, la sua astratta essenzialità sciolta in 12 frammentate vicende d’immigrati, ci conduce dentro il centro di un caos quotidiano dove sembra esaurita ogni possibilità di comunicazione e dove la Babele espressiva è sintomo di un terrificante disagio esistenziale. In "Niente da nascondere" ritroviamo la stessa qualità di scrittura che sa provocarci e coinvolgerci in un gioco di domande che non trovano risposta. I film di Haneke, spesso così aspri e crudeli, sanno elaborare l’essenza stessa dei rapporti interpersonali nella nostra società devastata. E lo fanno con un’accuratezza, con una capacità di sintesi davvero rimarchevole. Nell’ultima parte di “Niente da nascondere” vediamo il personaggio di Auteuil (attore la cui bravura riesce sempre a sorprenderci) sprofondare lentamente in un sonno inquietato ed inquietante. Durante questo sonno, il regista ci dà l’illusione che i nodi dell’intreccio narrativo possano sciogliersi. Ma ciò non accade: in film come questi nemmeno il sonno o il sogno riescono ad essere dimensioni privilegiate. La realtà incombe e la sua forza sembra conquistare ogni spazio di evasione, ogni possibilità di futuro.

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