ARTE E ARCHITETTURA

HomeNewsCulturaArte e architettura

Migrazioni di salvezza nella pittura di Daniela Papadia

  • 13 marzo 2006

“Save my name" è il titolo della ricca (64 oli e tre video) e bella personale dell’artista palermitana Daniela Papadia (1963), mostra che si è inaugurata lo scorso 11 marzo a Palazzo Ziino, a cura di Amnon Barzel, patrocinata dal Comune di Palermo e dalla Regione siciliana, con la direzione organizzativa di Debora Di Gesaro (visitabile fino al 17 aprile, in via Dante 63, dal martedì al sabato dalle 9 alle 20, e la domenica dalle 9 alle 13; ingresso 5 euro). Questo è il titolo che dà anche il nome all’ultimo ciclo di opere della Papadia, la quale dal ’94 a oggi ha sempre lavorato per cicli tematici, così come ha sempre utilizzato la stessa tecnica, ossia la rielaborazione pittorica di foto, avvalendosi anche del supporto del digitale. Il suo percorso artistico non può, comunque, essere compreso se non insieme al suo profondo percorso concettuale, che prende i connotati di una vera e propria riflessione politica e sociale sul mondo, a cui si potrebbe dare l’immagine metaforica di un lungo e faticoso viaggio di salvezza e liberazione, personale e collettiva.

Adv
Fin dai primi lavori di "Profughi di identità" (dal ’94 al ’97), l’artista ha iniziato il suo viaggio analizzando le folle, folle che pregano, che lavorano, che partono, che soffrono, come una forza magmatica che inconsciamente si aggrega verso un riscatto comune. In seguito con La distanza come dimora (1998), la folla diventa una folla di donne, toccando così un altro tema fondamentale nella sua ricerca e cioè la figura della donna il cui viaggio nella storia è stato sempre più faticoso e più doloroso, sin dalla notte dei tempi, da quella biblica “costola” che ne ha sancito il ruolo di subalterna. Ma Daniela Papadia, dando a questa immagine della costola l’accezione di “ombra dell’uomo”, quindi “di potenzialità che aspetta di venir fuori” (come afferma la stessa artista), con il ciclo "Sospesi e Metéoros" (dal 2002 al 2004) fa librare la donna sopra la massa, liberandola dalla gravità dell’oppressione e della storia, come un angelo del Barocco cinquecentesco, ma senza gioia.

Infatti, come scrive Alain Touraine, “la liberazione non è compiuta”, e sembra avvenire con il coraggiosissimo ciclo "Inside me" (2005), dove l’immagine di una donna incinta incarna l’umanità intera che rinasce dopo aver subito le doglie, ossia il dolore della storia, quella freccia che trafigge il ventre e che non fa più male. Questo popolo migratore verso la salvezza, sembra, infine, trovare dimora nel deserto di "Save my name", la recente serie di lavori dove questo luogo arido è reso paradossalmente ospitale, abitato da quella stessa folla che la Papadia ritraeva confusa nella lotta quotidiana e che desidererebbe, come ognuno di noi, immaginare così serena e “salva”.

Se ti è piaciuto questo articolo, continua a seguirci...
Iscriviti alla newsletter
Cliccando su "Iscriviti" confermo di aver preso visione dell'informativa sul trattamento dei dati.

GLI ARTICOLI PIÙ LETTI