CINEMA E TV
La favola nera di Guillermo del Toro
Il labirinto del Fauno (El laberinto del fauno)
Messico/Spagna/U.S.A. 2006
di Guillermo del Toro
con Ivana Baquero, Doug Jones, Sergi López, Ariadna Gil, Maribel Verdú, Álex Angulo
Il modo migliore per godere de “Il labirinto del Fauno” è quello di mettere al bando ogni preconcetto critico per regredire all’infanzia e lasciarsi trasportare in un limbo emotivo dove tutto può essere affascinante e meraviglioso, ma anche ostile e terrificante. Ecco, è dalla fantasia di un fanciullino pascoliano nutritosi degli incubi di Goya e ossessionato da troppi film horror che scaturisce questo affresco fantasy-storico di Guillermo del Toro, fervido talento messicano con un piede nell’immaginario hollywoodiano (“Blade II”, “HellBoy”) e uno nella cultura ispano/americana d’origine (“La spina del diavolo”). La piccola Ofelia è sospesa tra due mondi. Da una parte lo scenario – fatto di guerriglia, attentati, torture e violenze ingiustificate – degli ultimi anni di Guerra civile spagnola. La madre si è risposata con un mefistofelico capitano franchista ed è stata fatta trasferire con la bambina in un appostamento militare asserragliato dagli ultimi fuochi resistenziali.
Al di là di tutto – messaggi politici, rivisitazioni storiche e regressioni naturalistiche – il film di Del Toro convince perché è una delle rappresentazioni più efficaci della fanciullezza che si siano viste da anni sullo schermo. Rispetto a titoli come “MirrorMask” e “Tideland” (ancora inediti in Italia) – scaturiti tutti da quella matrice inesauribile e universale che è “Alice nel paese delle meraviglie”, ma calate in un contesto più dark – “Il labirinto del Fauno” evita il sentimentalismo e l’infantilismo di Dave McKean e le confusionarie elucubrazioni di Terry Gilliam, realizzando una rappresentazione allegorica rigorosamente per adulti, che non ha paura di sbattere la violenza in faccia e sfugge (incredibilmente, visto l’impianto favolistico) alla trappola del lieto fine. Con “Il labirinto del Fauno” anche il cinema stesso regredisce all’infanzia e recupera il suo valore ancestrale: affabulatorio, immaginifico, ma soprattutto emozionale.
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