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La favola nera di Guillermo del Toro

  • 11 dicembre 2006

Il labirinto del Fauno (El laberinto del fauno)
Messico/Spagna/U.S.A. 2006
di Guillermo del Toro
con Ivana Baquero, Doug Jones, Sergi López, Ariadna Gil, Maribel Verdú, Álex Angulo

Il modo migliore per godere de “Il labirinto del Fauno” è quello di mettere al bando ogni preconcetto critico per regredire all’infanzia e lasciarsi trasportare in un limbo emotivo dove tutto può essere affascinante e meraviglioso, ma anche ostile e terrificante. Ecco, è dalla fantasia di un fanciullino pascoliano nutritosi degli incubi di Goya e ossessionato da troppi film horror che scaturisce questo affresco fantasy-storico di Guillermo del Toro, fervido talento messicano con un piede nell’immaginario hollywoodiano (“Blade II”, “HellBoy”) e uno nella cultura ispano/americana d’origine (“La spina del diavolo”). La piccola Ofelia è sospesa tra due mondi. Da una parte lo scenario – fatto di guerriglia, attentati, torture e violenze ingiustificate – degli ultimi anni di Guerra civile spagnola. La madre si è risposata con un mefistofelico capitano franchista ed è stata fatta trasferire con la bambina in un appostamento militare asserragliato dagli ultimi fuochi resistenziali.

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Dall’altra un universo fiabesco consolatorio che la vede ricoprire il ruolo di principessa erede di un antico regno. Ma le realtà parallele s’intrecciano come in un inestricabile labirinto: così i fascisti sono dei cattivi senza sfumature proprio come gli uomini neri delle favole, mentre il mondo fatato è un covo di creature infide e traditrici. Il fantasy di Del Toro è sporco, fangoso, tetro e sanguinante. L’esperienza visiva degli spettatori non è dissimile da quella del mostro più inquietante e visionario di tutto il film: un essere pallido e glabro che scruta la realtà circostante attraverso bulbi oculari posti nel palmo delle mani. Questa strana sinestesia visivo-tattile è un po’ la cifra stilistica dell’opera: ci sembra quasi di “toccare con gli occhi” la materia vivida e umbratile di cui si sostanzia la narrazione. Il contatto con la “terra” assume una duplice valenza simbolica: la forza vitalistica e vivificatrice del mondo naturale, incarnata dal fauno Pan(ico) e dalle fate dei boschi, soccombe sotto il peso della pulsioni bestiali e mortifere degli umani.

Al di là di tutto – messaggi politici, rivisitazioni storiche e regressioni naturalistiche – il film di Del Toro convince perché è una delle rappresentazioni più efficaci della fanciullezza che si siano viste da anni sullo schermo. Rispetto a titoli come “MirrorMask” e “Tideland” (ancora inediti in Italia) – scaturiti tutti da quella matrice inesauribile e universale che è “Alice nel paese delle meraviglie”, ma calate in un contesto più dark – “Il labirinto del Fauno” evita il sentimentalismo e l’infantilismo di Dave McKean e le confusionarie elucubrazioni di Terry Gilliam, realizzando una rappresentazione allegorica rigorosamente per adulti, che non ha paura di sbattere la violenza in faccia e sfugge (incredibilmente, visto l’impianto favolistico) alla trappola del lieto fine. Con “Il labirinto del Fauno” anche il cinema stesso regredisce all’infanzia e recupera il suo valore ancestrale: affabulatorio, immaginifico, ma soprattutto emozionale.

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