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"La vertenza Florio" al monastero di Palermo: se i Leoni fecero causa alle suore

Tutto ebbe inizio 100 anni fa, quando si spegneva, ormai anziana, tra le antiche mura del complesso monastico, la principessa di Sant’Elia

Maria Oliveri
Storica, saggista e operatrice culturale
  • 25 settembre 2024

Chiostro di Santa Caterina

“La vertenza Florio”, così le ultime religiose del monastero di Santa Caterina erano solite ricordare la lite giuridica che oltre 100 anni fa vide scontrarsi da una parte “i leoni di Sicilia” e dall’altra “le figlie di Don Domenico”.

Tutto ebbe inizio nell’autunno del 1899, quando il 26 novembre si spegneva, ormai anziana, tra le antiche mura del complesso monastico, la principessa di Sant’Elia: suor Domenica Rosalia alias Giovanna Trigona, figlia del fu Domenico Trigona e di Filomena Rosalia Gravina.

La Trigona, in considerazione del suo titolo e del suo patrimonio (feudi in Piana degli Albanesi, Ravanusa, Noto…) era sempre stata trattata dalle altre monache con tutti gli onori e aveva goduto di particolari privilegi.

Aveva potuto spendere i suoi denari per acquistare mobili di pregio per la sua camera oppure piatti di porcellana per suo uso personale e tovaglie di tela fine.

Nel 1849 aveva chiesto di poter uscire dalla clausura per problemi di salute (scusa adottata da moltissime religiose). Per prolungare poi la villeggiatura aveva anche fatto ricorso al celebre medico Nicolò Cervello: questi il 20 novembre 1849 aveva certificato che soffrendo di coliche renali e infezioni urinarie, la Signora Trigona non doveva al momento rientrare in al Santa Caterina “onde non interrompere quel poco di vantaggio che può ritrarre dal moto e dall’aria libera”.
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Sappiamo che per diverse estati si era recata in carrozza nel feudo di Casa S. Elia, a Fondachello, vicino Santa Flavia e vi aveva trascorso i mesi estivi, “divertendosi”. La Trigona era molto generosa: faceva regali alla servitù di casa S. Elia e alla sua cameriera personale; aveva contribuito alla dote di due fanciulle, Francesca Realmuto e Rosina, che desideravano prendere i voti, ma non avevano mezzi sufficienti. (La prima sarebbe diventata monaca al Santa Caterina, la seconda nel monastero dell’Assunta).

Giovanna era molto legata sia al fratello Romualdo, principe di Sant’Elia, che alla sorella Eleonora. Non faceva mancare loro nelle festività i dolci più buoni della “Spiezieria” monastica: biancomangiare, torta di crema e carne dolce, bocconetti, biscottini e cioccolata. La sorella di Giovanna Trigona, Eleonora, aveva sposato il conte di Gallitano Gioacchino D’Ondes Reggio: la coppia aveva avuto una figlia Giovannina, che a sua volta era convolata a nozze col commendatore Ignazio Florio, figlio di Vincenzo, possidente, domiciliato in Largo Olivuzza.

La Trigona inviava spesso dei doni preziosi anche alla nipote Giovannina: le regalò un “brelocco” (brillocco) per le nozze con Ignazio e una catena d’oro dopo la nascita del primo figlio.

In occasione degli onomastici dei Florio, per San Giovanni (24 Giugno) e per Sant’Ignazio di Loyola (31 Luglio), mandava regali e dolci squisiti. Si preoccupava anche della salute del loro primogenito Vincenzo, un bambino un po’ delicato (sarebbe morto a 12 anni), approntando nel 1869 le spese per il “medicamento per Vincenzo” e la “carne per Vincenzo”.

Eppure, nonostante i rapporti con i fratelli e i nipoti fossero stati per anni affettuosi e cordiali, qualche dissapore, qualche screzio doveva aver raffreddato la frequentazione tra la religiosa e la famiglia d’origine. Infatti, alla morte della zia, gli eredi scoprivano che aveva fatto testamento segreto: ben due anni prima della sua dipartita, nel 1897 si era recata dal notaio Domenico Cavarretta, stabilendo che alla sua morte, a parte un vitalizio alla sua cameriera personale Rosalia Falco e una rendita di £ 1275 alle pronipoti (Laura maritata col cav. Vito Oddo e Antonia sposata col barone Moncada Guglielmo, figlie del defunto nipote Francesco Trigona e Naselli), tutti i suoi beni sarebbero andati a tre monache del Santa Caterina: Maria Grazia Zagarese, Ciuro Giovanna e Gandolfo Giuseppa.

Il patrimonio del monastero era sempre stato costituito dalle doti, dai possessi e dalle rendite delle monache. Quando il monastero era stato soppresso dopo l’Unità d’Italia (in esecuzione del Regio Decreto del 7 luglio 1866) e aveva perso la proprietà di tutti i beni patrimoniali, alle monache, per garantirne il sostentamento, era stata riconosciuta solo una misera pensione mensile.

Per aggirare l’ostacolo che non consentiva ormai al monastero di possedere alcunchè, la Trigona aveva nominato eredi universali del suo patrimonio le tre monache, che a loro volta avrebbero fatto lo stesso con le altre consorelle. La Zagarese con testamento olografo nel 1904 nominò sue eredi Landolina Giovanna e Zagarese Adelia; questa con testamento olografo del 1911 nominò eredi Guccione Filomena e Landolina Maria Maddalena.

Quando Giovanna Trigona nel 1899 lasciava questo mondo, la sorella Eleonora era morta già da 17 anni, il cognato da 11 e il commendatore Ignazio Florio da 8 anni.

La vedova Giovanna D’Ondes Florio, erede “beffata”, viveva nella reggia dell’Olivuzza con i nipotini Giovannuzza e Ignazino Baby boy, la nuora Franca e il figlio Ignazio che aveva preso in mano le redini della gestione dell’impero familiare. In quel periodo non era ancora cominciato il crack di Casa Florio. Solo poco tempo dopo, nell’estate del 1902 si sarebbe spenta la piccola Giovannuzza, e qualche mese dopo a causa di un incidente anche Baby Boy l’avrebbe seguita nella tomba.

I Florio erano dunque moralmente a pezzi, quando il 23 aprile 1903, la priora del monastero di Santa Caterina, Suor Maria Grazia Zagarese riceveva una lettera, con carta intestata “Amministrazione immobili e tonnare Florio”, in cui l’amministratore P.G. Caruso sollecitava una risposta alle lettere del 18 Agosto e dell’11 Novembre 1902.

Casa Florio chiedeva alle eredi della Trigona il rimborso delle annualità esatte per errore dalla principessa sulle quote provenienti dall’eredità degli zii Starabba. Le monache, eredi della Trigona, dovevano restituire alla signora Giovanna D’Ondes Florio lire 114, 08, concludeva l’amministratore Caruso.

Alla lettera del 18 novembre la priora Zagarese rispondeva che “stante la pericolante vita di una conversa non possiamo al presente occuparcene. Lo faremo quando la conversa meglio sarà in salute”. Due anni dopo, nel 1905, le monache non avevano pagato ma si dicevano – a parole - disponibili a stipulare un atto notarile a favore dei D’Ondes – Florio; invece 7 anni dopo, nel 1912, le trattative tra l’amministratore dei Florio da una parte e l’avvocato G. Scandurra Sanpolo e il Sig. Stefano Falcone, amministratore del Santa Caterina dall’altra parte, risultavano ancora in alto mare.

Scriveva l’avvocato Scandurra Sanpolo al sig. Falcone in data 29 Luglio 1912: “Si è convenuto di pagare in due annate, a cominciare da quella del 1903; certamente ora si dovrebbe ottenere il condono degli arretri; del resto legalmente non si possono richiedere che le ultime 5 annate, a cominciare dal 1907” ma il 12 agosto faceva marcia indietro affermando che: “Il Florio una volta pagò 28 anni di arretri”.

Il 4 settembre del 1912 l’avvocato mandava un’altra lettera a Falcone, spiegando che il riconoscimento dell’errore risaliva al 1870: “Stanti così le cose, si vede chiaro che tutte le obbligazioni sono prescritte, rimontando gli atti a più di 30 anni…poiché la amm.ne Florio ha dormito, così ritengo che la sig. Florio non può pretendere più delle 5 annate. Aspetteremo che l’amm.ne Florio si svegli e il ritardo sarà sempre tanto di guadagnato per noi. Tanti saluti”.
Dieci giorni dopo, il 13 Settembre 1912, l’Amministrazione immobili e zolfare Florio scriveva all’avvocato Scandurra: “Abbiamo scritto alla moniale Sig. Gandolfo nel monastero di Santa Caterina …non avendo ad oggi ricevuto alcuna risposta preghiamo la S.V. a volere sollecitare la sua cliente.”

Passavano altri due anni: il 31 Luglio 1914, l’Amministratore dei Florio tornava a scrivere all’avvocato: “La preghiamo volerci comunicare chi sono oggi i rappresentanti della defunta moniale Giovanna Trigona”, perché via via che gli anni passavano le monache morivano e si tramandavano per testamento l’eredità Trigona, crediti e debiti compresi… La vicenda non si era ancora risolta quando 4 anni dopo, il 14 febbraio 1918, l’amministratore Florio scriveva al sig. Falcone per redigere l’atto promesso tanti anni prima dalle monache: “I Florio comunicano di avere già nel 30 Gennaio 1905 (tredici anni prima), trasmesso tutti gli atti.” Il 2 Marzo successivo l’avvocato Scandurra ipotizzava col Sig Falcone: “I signori Florio non insistono nel richiedere tutti gli arretrati ma intendono, secondo me, avere le ultime 5 annate.

Attendo di sapere da lei quale risposta debba io dare.” Invece il 7 Marzo arrivava a Falcone una lettera dell’amministrazione Florio in merito agli arretrati: il pagamento di due annate proposto da Scandurra era stato rifiutato; si doveva iniziare il conteggio dal 1899 anno di morte della Trigona. Nel frattempo nel 1917 era deceduta anche Giovanna d’Ondes e nella vertenza Florio subentrava “l’Amministrazione dell’eredità della signora Giovanna d’Ondes Trigona vedova Florio”.

A questo punto a muoversi era Ignazio Florio in persona, che firmava di suo pugno prima la lettera del 21 Marzo 1918 per invitare il sig, Falcone alla riunione in via Materassai 51, giorno 26 alle 16, per la pendenza del riconoscimento della rendita dovuta dalle eredi della defunta moniale Giovanna Trigona. L’appuntamento veniva rimandato perché le monache eredi superstiti Gandolfo Giuseppa e Ciuro Anna Maria (erede con testamento olografo del 1923 di Ciuro Giovanna, morta il 19 Gennaio 1930), Filomena Guccione che dovevano firmare l’atto a favore dei Florio non potevano uscire nel pomeriggio.

Il 1918 sarebbe stato per i Florio un “annus horribilis”: “l’abbandono della reggia dell’Olivuzza, dove avevano ricevuto re e imperatori, segnava davvero fisicamente la fine del regno palermitano dei Florio. Tutti, anche i più scettici, ormai potevano constatare con i propri occhi che il re era davvero nudo e che il regno era definitivamente perduto.” (O. Cancila).

Ancora il 9 Luglio del 1920 l’amministrazione Florio era costretta a scrivere per sollecitare il pagamento. Il tono era talmente sdolcinato da sembrare quasi sarcastico: “Egregio sig, Falcone, interesso vivamente la di lei ben nota gentilezza, perché voglia compiacersi farmi sapere con particolare cortese sollecitudine se ormai posso far incassare presso le reverende signore moniali la ricevuta delle lire 114, 08 dovute”.

Trascorreva ancora un anno. Il 24 Giugno 1921 l’atto non era ancora stato stipulato: “Pregiatissimo sig. Stefano Falcone con lettera del 15 Novembre ultimo…la pregai per una risposta sollecita, essendo i sig. Florio a Palermo, e quindi al caso di firmare senza altro indugio”. E aggiungeva, togliendosi un sassolino dalla scarpa: “Non potendo rimandare all’infinito la stipula di tale atto che avrebbe dovuto e potuto definirsi da tempo. Facendomi animo a sperare che vorrà favorirmi, la ringrazio e ossequio distintamente”. Quattro anni dopo, il 24 Marzo 1925 veniva finalmente firmato dai signori Florio il celebre atto delle rendite, ma ad Agosto giungeva un sollecito al sig. Falcone “vorrà essere gentile quando crede provvedere al pagamento”.

La vertenza Florio si sarebbe conclusa solo il 3 Luglio 1931, oltre trent’anni dopo la morte della moniale Giovanna Trigona, con il pagamento da parte delle monache di tutti gli arretrati. Quanto valevano quelle 114, 05 lire dopo trent’anni? Se nel 1870 equivalevano circa a 500.000 euro; nel 1899 a 470.000 euro, nel 1930 solo a 93.000 euro.

Quanto era costato ai Florio recuperarle? Tuttavia negli anni ‘30 ogni singolo centesimo era diventato ormai vitale per Casa Florio.

Nel luglio 1933 Ignazio scriveva alla moglie Franca di aver incassato 45.000 lire ma di aver pagato 40. 000 lire ai creditori; le raccomandava di: “spendere poco” e di “fare sacrifizi”, perché “ti avverto che non saprei più dove trovare i denari”.
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