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La libertà (impudica) delle 'Ntuppatedde in Sicilia: scorribande in gruppo per Sant'Agata

In occasione della festa un gruppo di donne nascondevano la propria identità e quello che succedeva dopo nemmeno si raccontava, ma era un loro sudato "diritto"

Annamaria Grasso
Insegnante e storica dell'alimentazione siciliana
  • 3 febbraio 2023

Le 'Ntuppatedde in giro per Sant'Agata

Un “gran veglione di cui tutta la città è il teatro": così Giovanni Verga descrive Catania nei giorni della festa di Sant'Agata. Metafora perfetta già dalla fine di gennaio, quando le dodici candelore variopinte, che per la maggior parte rappresentano le diverse corporazioni delle arti e dei mestieri, cominciano a vestire a festa i quartieri cittadini in onore della Santa patrona e si respira un'aria di attesa, percepita nella gioia dei colori e nella dolcezza dei profumi di torrone, zucchero filato e mele caramellate sulle bancarelle.

Le origini del culto della Santa risalgono al Medioevo, quando un solo giorno, il 4 febbraio, si svolgevano le celebrazioni liturgiche.

Nei secoli, la festa (dal 2002 Bene etnoantropologico dell'Unesco) si è poi articolata in quattro giorni, dal 3 al 6 mattina, perché al culto religioso si erano aggiunti spettacoli e manifestazioni popolari, come quella, che forse non tutti conoscono, delle ‘Ntuppatedde.
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Chi sono? In Spagna e in Perù erano le Tapadas, in Sicilia, a Catania, il termine dialettale viene da “ntuppa” (la membrana che chiude il guscio della lumaca in letargo) la cui traduzione in italiano potrebbe essere “nascoste”, “chiuse”, “velate” e si riferisce a un gruppo di donne che, a volto coperto per rendersi irriconoscibili, dal ‘600 all' ‘800 in giro per la città festeggiavano la Patrona.

Ma leggiamo la magistrale descrizione che ne fa Verga nella novella “La coda del diavolo": ”(…) le signore, ed anche le pedine (n.d.r le popolane), hanno il diritto di mascherarsi, sotto il pretesto d’intrigare amici e conoscenti, e d’andar attorno, dove vogliono, come vogliono, con chi vogliono, senza che il marito abbia diritto di metterci la punta del naso.

Questo si chiama il diritto di ‘ntuppatedda (…). Il costume componesi di un vestito elegante e severo, possibilmente nero, chiuso quasi per intero nel manto, il quale poi copre tutta la persona e lascia scoperto soltanto un occhio per vederci e per far perdere la tramontana, o per far dare al diavolo.

La sola civetteria che il costume permette è una punta di guanto, una punta di stivalino, una punta di sottana o di fazzoletto ricamato, una punta di qualche cosa da far valere insomma, tanto da lasciare indovinare il rimanente.

Dalle quattro alle otto o alle nove di sera la ‘ntuppatedda è padrona di sé (cosa che da noi ha un certo valore), delle strade, dei ritrovi, di voi, se avete la fortuna di esser conosciuto da lei, della vostra borsa e della vostra testa, se ne avete; è padrona di staccarvi dal braccio di un amico, di farvi piantare in asso la moglie o l’amante, di farvi scendere di carrozza, di farvi interrompere gli affari, di prendervi dal caffè, di chiamarvi se siete alla finestra, di menarvi pel naso da un capo all’altro della città,(…)

di farvi comperare, per amore di quel solo occhio che potete scorgere, sotto pretesto che ne ha il capriccio, tutto ciò che lascereste volentieri dal mercante,(…)di rendervi geloso, di rendervi innamorato, di rendervi imbecille, e allorché siete rifinito, intontito, balordo, di piantarvi là, sul marciapiede della via, o alla porta del caffè(…),il segreto della ‘ntuppatedda è sacro".

Le ‘Ntuppatedde dunque erano fanciulle, ma in seguito anche donne di tutte le età e condizione sociale, che dai primi decenni del 1600 si erano ( faticosamente) appropriate del “diritto" di andare in gruppo per la città, nascondendo la propria identità, ad accompagnare la Santuzza cantando e danzando senza che padri, mariti, fratelli potessero vietarglielo: solo qualche ora di libertà dalla sudditanza, poi il rientro a casa e la ripresa di una quotidianità grigia e silenziosa.

La bellezza del loro rituale aveva colpito anche un pittore e viaggiatore del Gran Tour, Jean Houel, che nel 1780 le raffigurò in un quadro della festa di Sant'Agata. Purtroppo però nel 1693 fu proibito il velo che copriva del tutto il viso lasciando scoperti gli occhi, o anche uno solo e poi, nell' 800, il rito fu definitivamente soppresso dal cardinale Dusmet per motivi di sicurezza e perché considerato immorale.

Ma, per la gioia di fedeli e turisti, le ‘Ntuppatedde dal 2013 sono tornate grazie all'iniziativa di una giovane artista catanese, Elena Rosa, regista e performer, che abbiamo intervistato. Venuta a conoscenza casualmente di questa antichissima tradizione interrotta, Elena racconta che ne rimane così affascinata da impegnarsi in ogni modo a ripristinarla.

E ci riesce, prima mettendo insieme un gruppo di poche ragazze e poi, anno dopo anno, ottenendo un consenso sempre maggiore di adesioni. Certo, ci spiega, questa ripresa ha acquistato il sapore della nostra contemporaneità.

Sono cambiati i colori degli abiti indossati: dal misterioso nero si è passati al luminoso bianco su cui spicca un garofano (il fiore del fercolo della Santa), rosso per ricordare il colore del velo di Sant'Agata e il suo martirio.

Inoltre, il “ diritto” di ‘Ntuppatedda è ormai puramente formale, grazie alle conquiste di libertà e autodeterminazione femminile (attenzione però, nessuna connotazione politica!) e la loro danza gioiosa, che esplode la mattina del 3 febbraio sulle note della banda delle candelore prima al mercato del pesce, poi in piazza Università e via via per i quartieri della città, si è trasformata in una vera e propria performance entusiasmante e coinvolgente.

Sacra o profana? Non possiamo fare a meno di chiederlo ad Elena. Ci risponde con un sorriso, “l'una e l'altra, perché ci hanno dato tanti appellativi: verginelle, sante, svergognate! Attraversiamo entrambe le direzioni, muovendoci tra sacro e profano perché rappresentiamo in una festa matriarcale la presenza femminile devota a una donna-guerriera-santa, ma nello stesso tempo manifestiamo liberamente la nostra naturale, istintiva, fisicità carnale”.

E il velo ( che ormai non nasconde ma svela) non è simbolo di oppressione ma di libertà. Libertà di trasformarsi, di incarnare per qualche ora una diversa, misteriosa identità. E a proposito del velo, ciò che è rimasto dell'antica tradizione – dice Elena- come attestano numerose fonti, è l’origine della festa cristiana strettamente connessa al culto pagano di Iside, dea della vita e della fertilità, raffigurata con un velo che è simbolo del mistero della Natura e sembra dire agli uomini: "io sono stata e sempre sarò, per voi mortali, insondabile. Mai riuscirete a strapparmi questo velo!”.

Il senso dell'attuale ritorno delle ‘Ntuppatedde, infine, è anche quello di riscattare simbolicamente una di loro che nel 1868 venne insultata, cacciata ed esclusa dalla festa perché giudicata eccessivamente impudica.

Per questo, conclude l’ ideatrice e organizzatrice dell'evento, il “ diritto" di ‘Ntuppatedda oggi è diventato un “dovere": quello, dettato dal senso di responsabilità, di proseguire il discorso di queste donne che attraverso i secoli contribuiscono a scrivere un pagina dell'emancipazione femminile, battendosi - come Sant'Agata - contro ogni forma di violenza e prevaricazione maschile.
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