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Incendi, razzie e massacri in Sicilia: contro i corsari sulla costa "spuntarono" 140 torri

La storia di alcune delle principali incursioni dei corsari sulla costa siciliana. A guidarle corsari come Sinam Pascià, Dragut e il pirata Barbarossa

Elio Di Bella
Docente e giornalista
  • 9 dicembre 2022

Il pirata Dragut

Tutti conoscono la Scala dei Turchi, a Realmonte, in provincia di Agrigento, una delle mete turistiche più ambite da italiani e stranieri, per le bianche pareti di marna che si specchiano sulle onde del Mediterraneo.

La guida turistica spiega a chi raggiunge questo bellissimo sito che la Scala dei Turchi prende il nome dai pirati Turchi (così erano chiamate per convenzione le genti Arabe), che nel ‘500 usavano "scalare" questa formazione rocciosa per saccheggiare i villaggi della costa come l’attuale Realmonte.

Un’incursione nella cosiddetta Scala dei Turchi, avvenne ad esempio l’otto agosto del 1803. I predoni salirono per la collinetta di marna e si avviarono, approfittando del buio, verso Realmonte impadronendosi del bestiame e di quanto trovarono sulla loro strada.

Però gli abitanti riuscirono ad avvertire i soldati borbonici che presidiavano la costa e questi, non solo impedirono ai pirati di raggiungere il centro del borgo, ma li costrinsero a reimbarcarsi. La pirateria è stato per lungo tempo un fenomeno endemico per oltre un millennio in Sicilia, in particolare nella sua costa sud-occidentale.
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Principali protagonisti delle scorrerie nelle coste siciliane sono stati pirati di origine islamica.

La pirateria è da alcuni storici considerata il più antico crimine contro l’umanità ed ha fatto vivere le popolazioni siciliane nel costante terrore di essere uccisi, o peggio, ridotte in schiavitù, soprattutto quelle che hanno vissuto sulle coste, incidendo in maniera nefasta sul loro tessuto sociale ed economico.

Le più antiche notizie di scorrerie di pirati musulmani risalgono al settimo e ottavo secolo dopo Cristo, da quando cioè, partendo dai porti di Tunisi, Tripoli ed Algeri che avevano conquistato, sbarcavano per depredare uomini e beni, ma sostavano nei paesi che saccheggiavano in genere solo fino ad un paio di settimane al massimo.

Ma fu nella prima metà del XVI secolo però che i pirati musulmani furono protagonisti di una lunga serie attività, che colpirono non solo la Sicilia, ma anche l’Italia meridionale la Sardegna, arrivando anche alle foci del Tevere a minacciare lo stesso Papa.

A partire dal XVI secolo, protagonisti di queste azioni di brigantaggio proveniente dal mare furono soprattutto i famosi « corsari barbareschi », popolazioni di discendenza turca che si insediarono lungo la costa nordafricana, detta Maghreb.

Le Reggenze barbaresche o Stati barbareschi designavano i paesi della Barberia, ossia Marocco, Algeria, Tunisia e Tripoli. La prima volta che il termine Barberia fu utilizzato come toponimo per l’intera regione fu nel 1513 nella Tabula Moderna Prime Partis Aphricae/Modern Map of the First Part of Africa di Martin Waldseemuller. Ma presto i termini «barbareschi» e berberi (gli abitanti originari di quei paesi) divennero familiari.

I pirati Berberi vissero di scorrerie contro beni e imbarcazioni dell'Europa cristiana dal XVI secolo agli inizi del XIX secolo nel Mediterraneo. In Sicilia in particolare le incursioni barbaresche furono ripetute. Qui ricordiamo solo alcuni episodi.

Nel 1511 una flotta composta di centocinquanta imbarcazioni, guidata da Sinam Pascià e da Dragut, arrivò nella baia di Augusta e bombardò il castello aprendo una breccia per poi sbarcare e saccheggiare la città, abbandonandola solo dopo averla incendiata.

Altre incursioni avvennero ad Augusta nel 1552, nel 1553 e ancora nel 1560 sotto la guida di Pialì Pascià. Nel 1544 Patti fu attaccata e saccheggiata dal pirata Barbarossa; gli abitanti si rifugiarono nelle campagne circostanti, ma al loro ritorno trovarono una città incendiata.

La tranquillità di Lipari finì, nel 1544, quando il pirata Barbarossa, sferrò un violento attacco con una flotta di 150 navi, bruciò ogni cosa, persino la cattedrale e costrinse alla schiavitù l’intera popolazione che, all’epoca, contava circa 8000 unità. Un’altra isola, Pantelleria, nel giugno del 1488 fu saccheggiata da una squadriglia turca e vennero fatti schiavi 80 dei 250 abitanti che Pantelleria allora contava e inoltre i pirati razziarono tutta la produzione di cotone e di tele, in quei tempi principale ricchezza dell'isola.

Fu ripetutamente saccheggiata anche dai corsari barbareschi. Particolarmente cruenta fu l'incursione che vi condusse il corsaro Dragut. La popolazione venne massacrata e un migliaio di abitanti fu tratto in schiavitù. L’undici luglio del 1553 la flotta di Mohamed Dragut riuscì a prendere la città di Licata, mettendola a ferro e fuoco per una settimana, deportando buona parte degli abitanti e uccidendone molti altri.

Le navi corsare - galere, fuste, galeazze, sciabecchi - arrivavano all' improvviso ed era quasi impossibile organizzare una resistenza. I saraceni si riversano sulla terraferma e uccidevano, incendiavano, razziava donne, bambini, uomini validi. Altre volte abbordano le imbarcazioni che incrociavano e catturavano mercanzie ed equipaggi. Alcuni capi corsari divennero leggendari, come il greco Khayr ad Din (1466-1546), il Barbarossa, il turco Dragut, il calabrese Luccialì o Uccialì detto Alì il Rinnegato.

Ad Augusta per difendersi da tali attacchi vennero costruiti due fortilizî ancora oggi esistenti, ma in molte altre città si ebbe un fervore inaudito di opere di fortificazione, apprestate in tutta fretta, in prossimità di un'invasione che si riteneva ormai imminente.

La terra siciliana volta verso il mare come un immenso cantiere. Basti pensare che in Sicilia vennero realizzate 140 torri di avvistamento lungo le coste, fornite di cannoni, soprattutto nel periodo in cui regnò Carlo V. Ma non bisogna guardare alle sole torri, perché il sistema di difesa statico si componeva di altri elementi, come ad esempio i «cavallari», i soldati a cavallo incaricati di pattugliare i litorali e trasmettere i messaggi di allarme.

Ma evidentemente non furono sufficienti neppure ad evitare nel 1560 che il vascello che trasportava al Concilio di Trento il vescovo di Catania Caracciolo venisse catturato e che il prelato venisse fatto prigioniero per un anno e liberato solo dopo un notevole riscatto.

Il ricco vescovo trovò i soldi per ritrovare la libertà, ma per i non abbienti catturati il destino poteva essere molto diverso. Venivano condotti nei “bagni penali” di Barberia, dove i malcapitati prigionieri venivano usati come schiavi, nell’attesa di un riscatto da parte dei paesi dai quali l’equipaggio proveniva.

Ben mille abitanti di Lampedusa furono fatti prigionieri e resi schiavi dai pirati barbareschi nel 1553, guidati da Dragutt e da allora Lampedusa rimase disabitata per circa tre secoli e venne frequentata dai naviganti soltanto per rifornirsi di legna o di acqua dolce.

«Vui mi pare che aviti poco cura a li fatti mei, che haio mandato multi literi, e mai non fu inpissibuli reciviri da voi uno signo di litera» è l’incipit di lettera di uno schiavo siciliano “che accusa la sorella di non rispondere ai suoi messaggi e la implora di darsi da fare per riscattarlo.

È il 15 aprile 1596 e Giuseppe Sanciza, così lui si chiama, è uno degli sventurati cristiani rapiti dai corsari musulmani e trascinati in catene a Tunisi, a Biserta, ad Algeri” (dal quotidiano online La Stampa, “Quando i pirati del Mediterraneo si arricchivano con gli schiavi”, del 24 marzo 2016).

Tra i tanti riscatti ricordiamo quello nell'estate del 1797, il 26 luglio, durante un viaggio da Palermo verso Napoli a bordo di una nave, in cui si trovava assieme ad altre 16 persone, Giovanni Luigi Moncada Ventimiglia Ruffo, principe di Paternò, nelle vicinanze di Ustica subì un'imboscata da parte di un gruppo di pirati tunisini che lo catturarono.

Aveva con sè 50.000 scudi, gioielli, argenterie, cavalli e regali da portare agli amici e alle amiche. Venne catturato e condotto a Tunisi dove fu tenuto prigioniero dal bey Hammuda ibn Ali.

Per trattare la sua liberazione dovettero intervenire le diplomazie del Regno di Napoli, della Francia, della Gran Bretagna e della Spagna, ma senza successo. Finalmente il 14 dicembre si ebbe l’accordo. Il principe di Paternò dovette versare la somma di 300.000 scudi da pagare al Bey di Tunisi, di cui 60.000 in contanti, ed il resto ratealmente o da denaro ricavato dalla dismissione di parte del suo enorme patrimonio.

Furono oltre un milione, secondo lo storico americano Robert C. Davis gli uomini, le donne e bambini, razziati in mare o in terra tra i primi decenni del 1500 e la fine del 1700 dai pirati. Quando non riuscivano ad ottenere il riscatto, i pirati vendevano come schiavi nei mercati delle città barbaresche coloro che catturavano.

Oppure i cristiani fatti schiavi, potevano essere utilizzati nelle navi dei pirati o potevano affrancarsi e avere la libertà ma al prezzo della abiura della propria religione e della conversione alla fede islamica. Furono costoro i cosiddetti « rinnegati » e alcuni di loro divennero comandanti degli equipaggi barbareschi e guidarono le scorrerie con assoluta precisione nei luoghi e a danno di facoltosi siciliani di cui ovviamente avevano personale conoscenza.

Fu pertanto fondata nel 1596 dal marchese di Geraci e poi dai Viceré Alba ed Olivares, l’Opera della redenzione dei “cattivi”, che raccoglieva fondi per riscattare coloro che non avevano mezzi.

Si organizzavano raccolte nelle chiese durante le celebrazioni e fu ordinato a tutti i notari e sacerdoti di consigliare a tutti coloro che facevano testamento di destinare un lascito proporzionale al patrimonio del testatore in favore del riscatto dei cristiani presi dai Mori.

La quasi totalità dei paesi dell’isola deliberò di stanziare una certa somma a carico dei capofamiglia, tranne i poveri per riscattare gli schiavi cristiani.

Ancora oggi sono custoditi nell’Archivio di Stato di Palermo, dalla Soprintendenza Archivistica per la Sicilia, gli archivi dell’Arciconfraternita per la Redenzione dei Captivi (istituita in Sicilia nel 1585 per il riscatto dei prigionieri) dove troviamo numerosissime lettere che gli schiavi siciliani scrissero alle famiglie implorando di pagare il riscatto.

A partire dal 1729 si avviò la pubblicazione di «cataloghi» degli schiavi riscattati dalla Barberia. Sappiamo da questi cataloghi che furono 378 dal maggio 1690 al 1721, 113 dal gennaio 1722 al 30 agosto 1729, 434 dal 1729 al 1754.

Nel 1771 a Tunisi si riscattarono 81 schiavi, mentre tra il 1787 ed il 1804 furono 167 i siciliani che riacquistarono la libertà, ma ancora nel 1804 gli isolani prigionieri in Barberia superavano le 700 unità.

Le scorrerie barbaresche cessarono soltanto agli inizi del secolo XIX, grazie agli accordi firmati con la Francia, alla quale appartenevano ormai le « corsare » città di Tunisi e Algeri. L’ultimo riscatto a quanto risulta agli storici fu richiesto nel 1807.
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