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In Sicilia si dice (anche) per dare un nome al tempo: che vuol dire "piove a pisuli pisuli"

Un modo di dire nato nell’immaginario, sempre molto arzigogolato, di noi siciliani ma è anche un gioco che facevano i ragazzi, anni prima della playstation

Alessandro Panno
Appassionato di sicilianità
  • 10 febbraio 2024

Correva l’anno 1995, il Sudafrica vinceva la coppa mondiale di rugby con Mandela che indossava la maglia del capitano e io dovevo sostenere l’esame per la maturità, evento nel quale mi ritrovai senza supporto genitoriale.

La congiunzione del destino volle che mia madre dovesse andare di gran furia in terra natia, a Genova, dalla sorella che stava per accattare, mentre mio padre, a causa del lavoro che svolgeva, era giusto giusto in quei giorni a Milano, per degli impegni improrogabili.

Parliamoci chiaro, nessun trauma, nada, anzi, a dirla tutta me la sono scialata. Studiavo quando dicevo io e solo quello che volevo io (ero cosciente dei miei limiti di studente fancazzista), niscivo cu l’amici e tornavo alla scurata granni, e ogni pasto era un festival di "sicilian- street food".

Quando arrivò il giorno dell’esame orale, sapendo che si trattava dell’atto finale, mi presentai a scuola in jeans tagliati corti spardati, magliettina dei Nirvana e infradito, dentro lo zaino tutto il "necessaire" per il mare dato che, al termine dell’interrogazione, l’intenzione era quella di iuncirisi con i compagni e scapputtare a Mondello a festeggiare.
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Ricordo ancora la faccia del mitico professore La Barbera, in quell’anno membro interno (chi ha fatto l’esame in 60/60 capirà) e che appena mi vide mi pigliò per il collo, «Panno ma dove minchia vai vestito così?», «professò devo fare l’ esame...»,«e ti conzi r’accussi? Chi pari nu scappato i casa?»,« professò dopo devo andare a Mondello! Ma poi non è stato lei che per cinque anni ci ha detto che l’importante è come sei dentro e non come appari?».

E ho memoria ancora dello scoppolone che mi accompagnò sull’uscio dell’aula. In ogni caso, a parte la mia giovine stupidità, alla fine l’esame andò anche abbastanza bene (a parte un piccolo diverbio con il presidente di commissione che, dalla spilla che aveva appuntata, capii subito essere di idee politiche molto diverse dalle mie... ma ai tempi ero una testa calda scanè).

Pochi giorni dopo fui accompagnato dal Musca (neopatentato) a Punta Raisi e partii pure io per la terra della fugassa. Non so se siete mai stati a Genova, ma io non riesco ad avere un ricordo nel quale non ci siano stati almeno tre giorni di pioggia.

Arrivai che sdilluviava ra bella, ma mi confortava che la mia combriccola genovese mi attendesse con ansia, anche perché io, nel loro immaginario, ero sempre stato la “creatura curiosa e fascinosa” della Sicilia e, lo ammetto, non feci mai nulla per sminuire questo fascino.

Un pomeriggio, mentre eravamo in centro a bere qualcosa, e pioveva sempre, mi uscì spontaneo, «minchia… ma qui piove a pisuli pisuli». Non era tanto per «minchia», erano abitiuati e se non l’avessi detto almeno ogni tre parole avrei perso fascino, ma «che belin è questo pisolo pisolo?».

Gli dissi che Pisolo al massimo è uno dei sette nani o appisulata pomeridiana, ma c’era da capire la loro curiosità dato che questo modo di dire è unicamente nostro, al pari di assuppaviddani (tanto per restare in tema).

Ottorino Pianigiano, nel suo vocabolario etimologico della lingua italiana del 1907, afferma che pisuli e pisulari, in Sicilia, derivino da pesulare o pensulare, originari della radice latina pensilis, ovverosia che pende.

Quindi, nell’immaginario, sempre molto arzigogolato, di noi siciliani, la pioggia initerrotta a scrusciari dà l’idea che vi sia un unico e lungo filo ininterrotto che, per l’appunto, è appeso in cielo e va a cadere sul terreno.

Piove pisuli pisuli , ovvero piove che pare che sono appesi. Sempre secondo Pianigiano, il pisulari indica anche l’annacarisi della testa di chi si addormenta, magari su una sedia, e da qua il nostro m’appisulai! Ma codesto luogo non è l’accademia della buffazza allittrata, per cui finiamola con questa serietà e andiamo subito nell’incerto.

Pare che, in tempi incerti, c’era una massara che stava a murmuriarisi perché erano giorni che pioveva e non poteva stendere i panni per farli asciugare. La dovete capire mischina, il marito che le diceva «Rosalia unnè a cammisa bianca con le arance rosse disegnate?», i figli «mamà, ma unni su i causi chidde a cacaiuola?» e alla signora, giustamente, che si sentiva a cucchiara di tutte i pignate, acchianava u nirbusu.

Così, all’ennesimo giorno di pioggia, incucciò la vicina e si sfogò, «signora Concetta sta addiventannu na camurria! Sta pioggia unnavi resiettu! Chiove chi pari na m’appinnuliata», e da lì a pisulu e pisulu il passo è breve.

Ma siccome voglio stupirvi con effetti speciali vi dirò che sto modo di dire ha dato il nome pure ad un gioco di cui, onestamente, ho un ricordo davvero vaghissimo.

Nel gioco della pisuliata, si mettevano a terra 5 piccole pietre, chiamate pisule e si teneva in mano un’altra pietra detta a’ mastra.

A sto punto si lanciava in aria la mastra e di subito si raccoglieva da terra un pisulu, acchiappando, successivamente al volo, con l’altra mano, la mastra, come se fosse appesa ad un filo. La cosa poi si ripeteva con tutti i pisuli a terra, a due a due, a tre a tre e così via.

Chi sbagliava ricominciava daccapo. Altro che playstation, nuautri si faceva a pisuliata!
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