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Hanno salvato ricette che sarebbero andate perse: i dolci siciliani delle monache di casa

C'erano Donna Sizilia, suor Vittoria e Anna Nicolosi: erano donne di un tempo esperte di cucina, di cucito e di ricamo e dedite alle preghiere quotidiane

Maria Oliveri
Storica, saggista e operatrice culturale
  • 19 maggio 2024

"Un'anziana che cucina un uovo" di Diego Velazquez

"La monaca di casa era di solito una zitella con abitudini monastiche e schive, dedita alla cucina e alla religione, ma soprattutto ad una castità di amianto e a un perenne lutto degli abiti. Le era concessa la frequentazione della chiesa e delle famiglie nobili.

Suor Santa, sempre velata e chiusa di nero (…) veniva ogni tanto a casa per aiutare nella preparazione di biscotti o tagliatelle o per restare in cucina a regolare l’alambicco, formato da una sedia capovolta sul tavolo di cucina, con un candido lembo di grossa tela legato ai quattro piedi come una tettoia, attraverso il quale filtrava goccia a goccia il bianco latte di mandorle per i pomeriggi di sete”. R. Pucci di Benisichi, scusate la polvere.

Le bizzoche o monache di casa, o beghine, o munachedde erano laiche consacrate. Era detta di solito monaca di casa una donna nubile che pur dichiarandosi spesso suora non lo era, ma condivideva con le monache la medesima claustrofobica vita di clausura, dedita alla preghiera e al lavoro.
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Queste donne decidevano di sottomettersi ad una regola di pietà, di sacrificio, di lavoro e di penitenza, di castità e prendevano i voti durante una pubblica cerimonia oppure in privato sotto confessione. Nel Seicento e nel Settecento in molti paesi e città c’erano moltissime "monache di casa". Scriveva Antonino Uccello nel volume Pane e dolci di Sicilia (1976) che nel 1622 a Palazzolo Acreide per rendere possibile alle monache di casa “lo honesto vivere” era riservata solo a loro la vendita di caseate (cassate) e sfoglie con manteca (burro).

Chi voleva abbracciare lo stato di bizzocca doveva essere di vita onesta e di sani costumi; aver minimo quaranta anni; esser dotata di patrimonio sufficiente al proprio sostentamento; vivere in famiglia coi genitori o parenti consanguinei.

Le monache di casa erano esperte di cucina, di cucito e di ricamo, attività che non dovevano però sottrarre troppo tempo alla recita delle preghiere quotidiane e alle particolari devozioni legate al calendario liturgico.

Tra il 1866 e il 1867, a seguito delle leggi eversive e della soppressione degli ordini e delle corporazioni religiose, quasi tutti i monasteri vennero espropriati dallo stato italiano, che riuscì a incamerarne il patrimonio: gli edifici furono trasformati in scuole, caserme, ospedali, magazzini oppure furono demoliti per realizzare nuove costruzioni (a Palermo ad esempio il teatro Massimo).

Le religiose dei vari ordini spesso furono ospitate nei pochi conventi superstiti, ma nella maggior parte dei casi furono costrette a tornare in famiglia o ad affittare una casetta: preparare dolci divenne per queste povere donne l’unico mezzo per mantenersi. 1 “Un dolce di rara bellezza veniva sempre dal popolo attribuito alla cura di una monaca”. Scriveva Antonino Uccello.

Aggiungeva inoltre che il ruolo svolto dai monasteri femminili nello sviluppo dell’arte dolciaria era stato di fondamentale importanza: antesignani delle moderne pasticcerie, erano stati per lungo tempo i detentori dei più importanti ricettari e secondo un altro studioso, Salvatore Salomone Marino, essi avevano acquistato celebrità per la confezione dei dolci non solo a Palermo ma in tutta la Sicilia .

Dopo il 1866 "aumentò dunque il numero delle cosi dette monache di casa, le quali contribuirono certo in modo notevole a diffondere via via i ricettari a un più vasto pubblico". Scriveva ancora Antonio Uccello.

Queste suore laiche, esperte nella preparazione di dolcini e liquori, venivano chiamate ducceri o cosaduciari nella zona di Scicli (Rg), dove preparavano biscotti ricci, passavulanti e a spinnagghia: il piccolo ed economico rinfresco a base di dolcetti di mandorle offerto dagli sposi, subito dopo la cerimonia.

Donna Sizilia fu a Scicli la più brava cosaruciara della città: Suor Cecilia, che il popolo chiamò poi “donna Sizilia”, fu una delle monache di Scicli vittima delle confische ecclesiastiche, ma continuò da “monaca di casa” a confezionare dolci come faceva in convento, traendone un modesto guadagno, in una Scicli di fine Ottocento molto golosa ed esigente. I dolci erano richiesti per fidanzamenti, matrimoni, battesimi.

Suor Cecilia lavorò fino alla morte, avvenuta poco dopo la fine della prima guerra mondiale. Abitava in una casetta di via Santa Teresa, nelle vicinanze dell’antico Corso San Michele e spesso chiamava una zitella che l’aiutava nella produzione. Le ricette di Donna Sizilia furono presto copiate e trovarono larga diffusione nelle famiglie di Scicli.

Alcune ricette sono state raccolte da un famoso pasticciere sciclitano Giovannino Neri e oggi vengono realizzate da tutte le pasticcerie: le “Teste di turco” (grosso bigné farcito di ricotta), i mustaccioli di vinocotto, la cobbàita. Alfonso di Giovanna, nel suo libro “Per modo di dire”, indica come ultima depositaria della tradizione dolciaria del Collegio di Maria di Sambuca (Ag), suor Maria Vittoria, al secolo Anna Sparacino, nata nel 1850 e morta il 23 Aprile del 1931.

Nel 1912, chiuso il convento, all’età di 62 anni la monaca andò a vivere in casa del fratello (dove morì a 81 anni). Per non essere di peso alla famiglia che l’oapitava, l’anziana donna si mise a provvedere al suo sostentamento confezionando e vendendo dolci. La Sparacino fu anche l’ultima depositaria della ricetta delle famose minni di virgini”, ricetta segreta che non rivelò mai neppure ai nipoti. “Qualcuno ha tentato una copiatura ad occhio e croce.

Ne sono uscite…cose striminzite…non hanno nulla a che vedere con i seni di vergine del peso cadauna di grammi 800 circa, inventate nell’anno di grazia 1725.” Scriveva Alfonso Di Giovanna nel 1975. Anna Nicolosi (1883-1940), detta ‘a munachedda, dopo aver servito una nobildonna nel monastero delle Vergini di Palermo, si ritirò a Marineo, dove era nata e dove morì all’età di 57 anni.

Piccola, magra, vestita perennemente a lutto, indossava una gonna lunga sino alle caviglie, un pesante scialle di lana fatto ai ferri, e portava i capelli raccolti stretti sulla nuca. Viveva con un piccolo vitalizio che l’aristocratica accudita nel monastero le aveva lascito e si dedicava insieme ad altre dame di carità a soccorrere a domicilio i poveri vecchi e a visitare gli ammalati, portando un sussidio, un ristoro, un conforto.

"A munachedda, Anna Nicolosi, era una zia di mia madre" racconta il professore Francesco Virga: "fu un modello autentico di religiosità cristiana e tramandò a mia madre oltre alla sua fede sincera, anche le ricette segrete che aveva imparato dalle monache: Tetù e Taralli, inciminnati (reginelle), biscotti Umberto, Savoiardi, Vucciddati.

Quelle ricette le tornarono veramente utili quando, rimasta vedova giovanissima, mia madre si mise a far dolci in casa e a venderli, per potere mantenere sè stessa e per permettermi di studiare: io all’epoca avevo solo 16 anni!

Mia madre era bravissima a fare dolci! Qualche tempo dopo, nell’agosto del 1975 ebbi modo di conoscere, nel centro di formazione diretto dal sociologo Danilo Dolci, lo studioso di tradizioni popolari siciliane Antonino Uccello.

Legammo immediatamente e alla fine del seminario volle conoscere il mio paese natale, Marineo, per vedere la famosa “Dimostranza di San Ciro” che proprio quell'anno, con la regia di Accursio Di Leo, veniva riproposta.

Ricordo ancora l’espressione del suo viso quando esclamò: "Questa non è cultura popolare! Questa è roba scritta da parrini!". La sua delusione si stemperò solo quando incontrò mia madre che gli regalò antiche ricette di dolci e alcune notizie sulla panificazione, pubblicate nel libro "Pani e dolci di Sicilia" l’anno seguente.

Le monache di casa hanno dunque svolto un ruolo importante anche in ambito culinario, hanno contribuito al diffondersi e al tramandarsi di antiche ricette monastiche che altrimenti sarebbero andate perdute.
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