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Gli "jurnatari", il menu e i divieti per le donne: la vendemmia (di una volta) in Sicilia

Si partiva molto presto, a piedi e ognuno aveva un fagotto da portare. Erano tempi duri e per i più, queste erano rare occasioni per mangiare qualche ghiottoneria

Giovanna Caccialupi
Perito chimico industriale
  • 28 agosto 2024

I preparativi iniziavano parecchi giorni prima, la data era condizionata dalla prenotazione del palmento e dalla speranza che non piovesse.

Solo i grandi proprietari avevano il palmento, che poi affittavano ai piccoli proprietari, che per sdebitarsi o pagavano o davano una mano nella raccolta con tutta la famiglia.

In cantina si preparavano le botti che dovevano ricevere il mosto. Le padrone di casa pensavano al cibo e a tutto ciò che potesse servire, cestini, forbici, gli otri, piatti di smalto e posateria.

Si partiva molto presto, a piedi e ognuno aveva un fagotto da portare.

Chi non aveva indossato scarpe chiuse si bagnava i piedi di rugiada, e spine ed erbe urticanti l’avrebbero tormentato per il resto della giornata.

Oltre a manovalanza a pagamento, c’erano parenti ed amici che davano una mano, (un reciproco scambio di manodopera) e che arrivavano presto assieme ai jurnatari, da distinguere da parenti e amici di riguardo che venivano invitati solo per diletto ed infatti arrivavano con comodo a squagghiata di l’acquazzina quando la rugiada era già evaporata e il fresco umido della notte svaniva nel tepore del mezzogiorno.
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Di riguardo o no c’eravamo tutti, come per qualunque raccolta, tranne Clelia, la figlia della zia Sina che da quando aveva studiato in collegio, riteneva di sminuirsi partecipando all’evento e crocifiggeva la madre che di volta in volta doveva inventarsi una scusa valida per giustificare l’assenza della figlia, alternando motivi di studio a motivi di salute, così a Clelia rimase la fama di studiosa assai cagionevole di salute.

Uno dei parenti di riguardo era il prozio acquisito Saverio, che arrivava poco prima del pranzo, fresco di barbiere, vestito elegante, cappello panama e bastone da teatro.

Aveva sempre in corso più di una causa legale, con un linguaggio da avvocato, elencava leggi e commi vari, annoiava tutti, che comunque, fingevano un cortese interesse. La moglie, sorella di mia nonna, piccola e scarna, invece, arrivava giorni prima, laboriosa e felice di aiutare.

Compare Pippino, maestro elementare, ma chiamato u prufissuri, accompagnato da moglie e figlia elegantissime con l’immancabile severo tailleur, girocollo di perle e decollete’ di vernice che alla madre strizzavano i piedi perennemente gonfi.

Per tutto il tempo si guardavano attorno, consapevoli di essere sprecati per quel contesto che ritenevano troppo umile per loro, ma nello stesso tempo generosamente si sacrificavano accettando l’invito del compare che per loro aveva una genuina ammirazione e non rifiutava mai i suggerimenti per votare.

Appena arrivati, si approntava per una veloce colazione, angiovi cu ogghio e acitu, grosse fette di pane, infornato il giorno prima aspettavano di unirsi alle olive schiacciate, nelle insalate di pomodoro cipolla e sedano, al formaggio stagionato salatissimo, alle melanzane arrostite e cunzate.

La mattinata trascorreva riempiendo la ceste coi grappoli recisi, per poi svuotarle nelle cufine che i più forzuti poi sistemavano sui muli.

I grappoli più belli venivano messi da parte, alla fine della giornata avrebbero riempito i cestini di tutti i partecipanti.

Lungo i filari si chiacchierava, si spettegolava, la cugina Venerina religiosamente rigorosa, mentre raccoglieva l’uva, pregava e vigilava, pronta a stroncare eccessi di allegria con aspri rimproveri, ricordandoci che il peccato è sempre in agguato per condurci all’inferno. Dopo il rimbrotto, proponeva un canto religioso per farci ottenere il perdono da Dio.

Accompagnava anche le ragazze che manifestavano necessità fisiologiche, in una toilette approntata in un lontano angolo della vigna, dove con dei teli era stata creata una zona protetta da sguardi indiscreti.

La zia Maricatina, sorvegliava le ragazze che venivano a lavorare, controllava che non si mettessero a parlare con i giovanotti o peggio, segnalando quelle ritenute “culumbrine”, che in futuro sarebbero state spietatamente escluse.

Nel cortile del palmento si allestivano tavole di fortuna che attendevano i vendemmiatori per il pranzo.

In alcune famiglie il menù da proporre sia per la vendemmia o altri lavori, era anche motivo di orgoglio per la padrona di casa, sia per ben figurare con gli ospiti di riguardo sia per invogliare gli operai a partecipare. Quelli erano tempi duri e per i più, quelle erano rare occasioni per mangiare qualche ghiottoneria.

Una nostra vicina, Donna Carmela, quando era tempo di zappare la vigna, ogni anno conservava u buccularu du maiali (una pancetta ricavata dal collo del maiale) e lo cucinava con l’estratto di pomodoro, per la gioia dei partecipanti, che confermavano la loro presenza con molto anticipo, pur di non perdersi quella prelibatezza.

Quando tutta l’uva era stata raccolta, portata e scaricata dentro la vasca di pigiatura, arrivavano tutti stanchi, sudati, accolti dall’aria olezzante di "piscistoccu a ghiotta” che cuoceva nel grande pentolone su un focolare improvvisato con quattro pietre.

La zia Tina il giorno prima aveva impastato e modellato i maccarruni, uno ad uno con un ferretto, dopo la cottura sarebbero stati immersi in sugo di pomodoro e salsiccia. Tanti bummuli di acqua e vino, aspettavano, tenuti in fresco, immersi nel vicino ruscello.

Rinvigoriti dal pasto, l’uva veniva pigiata coi piedi, una specie di danza di gruppo, chiassosa, affollata, dove ognuno seguiva un suo ritmo, dettato dal vino bevuto.

Mio nonno non ha mai permesso alle donne di partecipare o di assistere alla pigiatura dell’uva. Solo ai bambini era concesso, ma solo per poco all’inizio, poi ci affidavano un compito che ci avrebbe tenuto occupati per il resto della giornata.

Tutto si concludeva con il trasporto del mosto e il riempimento delle botti.

Una piccola parte di mosto veniva bollito con cenere e foglie aromatiche, sarebbe servito poi alla preparazione di liquori e dolci. La zia Rosa, il giorno dopo preparava a mustarda, con amido mandorle e cannella. Una parte la mangiavamo subito, come un budino, l’altra veniva fatta essiccare e consumata durante l’inverno.

La vite come qualsiasi coltivazione, richiedeva durante l’anno, faticose e puntuali cure per poter dare frutto sano ed abbondante, e si doveva anche pregare affinché il maltempo o qualche malattia delle piante non vanificasse tutti i sacrifici.

Per questo la nonna dedicava preghiere speciali all’inizio di ogni lavoro e alla fine della vendemmia, dopo aver sistemato le masserizie, prima di ritornare a casa ci riuniva per ringraziare Dio che ha protetto il raccolto e regalato una bella giornata per lavorare in armonia.
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