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Calderai, argentieri e pupari: chi resiste (e chi è scomparso) tra i mestieri storici di Palermo

Passeggiando fra le vie del centro, l’odore di soffritto o di salsa di pomodoro è ancora vivissimo, ma i negozi storici sono (quasi) tutti chiusi. Ecco le storie di chi resiste in città

  • 26 novembre 2020

Il ceroplasta Luigi Arini

In una vecchia guida degli anni Settanta di Anna Pomar, "Palermo in tasca", a un certo punto si parla del nostro concetto di tempo, di quell’«indolenza d’origine ispano-araba» che cadenza le ore della giornata tra la scrupolosa lettura del giornale, l’improvvisato salotto di un caffè al bar o il requiem del riposino pomeridiano.

La pausa per la colazione, generalmente alle 13:30, dice Pomar, è un antichissimo rito che «in tempi recenti è stato turbato dall’invenzione del telefono» e dall’uso barbaro che ne fanno amici e debitori. E lo stesso accade per il riposino successivo, quando nelle case borghesi è facile imbattersi in una domestica che, alla cornetta, risponda imbarazzata: «il signore è uscito da poco, ma tornerà sicuramente alle quattro».

Usanze ancora immutate per molti di noi. Ciò che è mutato è il senso della vita, del proprio lavoro. Passeggiando fra le vie del centro, l’odore di soffritto o di salsa di pomodoro è ancora vivissimo, ma i negozi storici sono quasi tutti chiusi – da Hugony e Spatafora in via Ruggero Settimo a Pustorino e alla libreria Dante in via Maqueda – e le botteghe artigianali sono in agonia, convertite in discopub e friggitorie o addirittura scomparse.
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Cosa che in fondo sta accadendo in tutto il mondo, sebbene con un impatto differente visto che la nostra sedimentazione culturale è particolarmente complessa e corposa.

"Palermo sacro e laborioso" (Sellerio, 1987) di Valentina Vadalà è un ottimo compendio per chi voglia conoscere tutte quelle maestranze che eccellevano in manifatture d’ogni sorta, arredavano le nostre case e ornavano la città per feste e ricorrenze, dai gessai o gli argentieri specializzati tuttora in ex-voto, ai cassari o i pupari come Mimmo Cuticchio, oggi patrimonio Unesco.

Un intervento di riqualificazione non dovrebbe escludere questi attori sociali, che sono beni culturali viventi, essenziali – come lo sono i residenti con il decoro dei propri edifici restaurati – per preservare e valorizzare la memoria identitaria di una città e le sue tradizioni. In via Calderai 14 esiste, dai primi del Novecento, la Bottega dei Trapani, accanto a quella più recente dei Marchese.

Nata inizialmente per il rame in un quartiere ebraico come la loro famiglia e in prossimità del Kemonia – le cui acque erano indispensabili per la pulitura del metallo – la bottega si è col tempo adeguata ai cambiamenti del mercato, vendendo manufatti da cucina in alluminio e poi in acciaio.

È il giovane trentenne Francesco, appassionato cultore di fumetti e animazione, a raccogliere oggi l’eredità del poliedrico padre Ezio, «commerciante con la passione del teatro o forse viceversa», diceva Pino Caruso, regista e sceneggiatore, attuale collaboratore del direttore del Teatro Biondo, Pamela Villoresi, e promotore di numerosi spettacoli di qualità con Albertazzi, Ovadia o Fo.

La bottega, come molte altre della storica via, continua a lavorare, non senza difficoltà, con i privati e le aziende di ristorazione del territorio. Ogni tanto giunge qualche chef stellato giapponese che desidera avere fra i suoi utensili la pignata in alluminio o la famosa quarara in rame, in grado di conferire gusto unico al piatto.

Più avanti, in via Nino Basile 6 (già ex vicolo Casa Professa), resiste un’altra bottega, la "Domus artis" di Luigi Arini, la cui impresa a carattere familiare – di cui fa parte anche Sergio Lucito, noto per gli “Ori di Piana” – risale alla seconda metà dell’Ottocento.

Arini è ceroplasta di notevole maestrìa, abile nel restauro e nella riproduzione di opere settecentesche in cera (Bambinelli, Madonne, presepi), scolpite a mano, tra coralli, argenti e pietre preziose, in rigorosa deferenza all’iconografia cristiana sancita dai canoni tridentini del Cinquecento. Realtà ecclesiali, musei diocesani d’Europa e privati, autoctoni o viaggiatori – tra i quali i milanesi devoti al culto della Vergine Bambina – sono clienti consueti.

Arini mi mostra un pregiato Bambinello tardobarocco che sta restaurando, appartenuto indubbiamente a una famiglia aristocratica. Nella Sicilia dell’epoca, racconta, era esplosa una competizione tra i nobili per chi avesse la statuetta più bella. A causa dell’alta mortalità infantile si usava esporre il Bambinello sul comò del letto, affinché l’atto di procreazione dei coniugi fosse benedetto.

Le tradizioni di un popolo dunque sono trasmissione di vitalità e identità, rendono la storia e le sue arti sempre contemporanei. Un immane patrimonio culturale, materiale e simbolico, che rischia di soffocare tra le spire della globalizzazione, intesa, come dice l’economo indiano Amartya Sen, non come sano e reciproco "viaggio di idee" ma come mortificante omologazione.
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