STORIA E TRADIZIONI
Era simbolo di nobiltà, si coltivava in Sicilia: dove cresceva questa (preziosa) pianta
Questa preziosa pianta dalle sottili foglie verdi e dai delicati fiori azzurri, venne coltivata per molto tempo in Sicilia. Introdotto dai Fenici, ecco dove si diffuse
È un potente termoregolatore capace di donare a chi lo indossa, sensazioni indimenticabili. Al suo contatto rilascia ioni negativi salutari, a differenza delle fibre sintetiche. Rispetto ad altre piante, consuma addirittura meno nutrienti dal terreno, rendendola ancora di più, ecosostenibile. È il lino e il suo nome ha origine greca "lion" (filo).
Si ha testimonianza del suo utilizzo da parte dell’uomo già nel 800 a.C. con gli antichi Egizi, Babilonesi, Fenici ed altri antichi popoli lo usarono come simboli rituali, di prestigio e potere.
In Europa ebbe la sua massima diffusione nel medioevo. E in Sicilia, dove tutto è possibile, la coltivazione del lino è stata un’attività agricola fiorente, contribuendo allo sviluppo economico e culturale dell’isola.
Questa preziosa pianta dalle sottili foglie verdi e dai delicati fiori azzurri, venne coltivata per molto tempo in Sicilia.
Introdotto probabilmente dai Fenici e poi consolidato dai Romani, il lino si diffuse soprattutto nelle aree montane e collinari, dove il clima e la qualità del suolo si rivelarono ideali per la sua crescita.
I Nebrodi, catena montuosa situata nella parte nord-orientale dell’isola, rappresentarono uno dei luoghi più importanti per la coltivazione del lino, grazie alle abbondanti risorse idriche e al terreno ricco di minerali.
Il suo utilizzo non venne confinato solo alla tessitura e della pianta se ne utilizzava tutto come i semi, fortemente oleosi, adoperati per l'estrazione dell'olio e per gli impieghi nella medicina popolare, oltre a servire anche per pitture e vernici.
Pestati e cotti i suoi semi venivano impiegati per decotti, come emollienti, e addirittura per lenire le conseguenze delle ernie. Abbrustoliti davano un effetto astringente e lenivano le affezioni perniciose dell’intestino; i semi del lino uniti all’uva passa servivano anche a guarire dal mal di fegato.
Insieme alla canapa, al cotone e alla seta, la pianta fu coltivata in grande quantità nell'Isola, tra il XVIII e il XIX secolo, che risultò essere una delle regioni in cui se ne registrava la maggiore produzione.
Sui Nebrodi, nei centri di Tusa, Mistretta, San Fratello, San Marco d'Alunzio, Cesar, Tortorici, Montalbano Elicona, il lavoro della tessitura è continuato fino a pochi decenni addietro. Ad Alcara Li Fusi, dove a metà dell'800 si contavano quasi 500 filatrici su una popolazione di 2500 abitanti, oggi sopravvive un numero assai ridotto di telai attivi.
Ma se da un lato, l’economia che fiorì grazie al lino, contribuì alla crescita del territorio, dall’altro, la sua coltivazione e successivamente la sua lavorazione esigevano un prezzo da pagare assai alto.
L’antico detto “patiri li guai di lu linu” rende appieno l’idea di quel che voleva dire… viverlo a 360°.
Questa attività, per via dei miasmi che esalavano dal trattamento della lavorazione delle fibre di lino, era, infatti, sottoposta a disciplina sanitaria e le Amministrazioni Comunali, nei loro regolamenti municipali prescrivevano le seguenti linee guida: «La macerazione dei lini e canapi non può cominciare prima del 16 agosto e sempre dietro il permesso dell’Autorità Municipale, conservando dall’abitato la distanza come dal precedente articolo, un chilometro e mezzo della periferia dell’abitato, ed infra la distanza di m 800 dalle pubbliche vie rotabili, e dalle case abitate di campagna e dai mulini».
Se la materia prima esigeva il trattamento più pesante ed energico da parte del contadino (come scriveva Martoglio in "Centona": li guai ri lu linu), il filato meritava tutta la cura e la delicata manipolazione della donna di casa, che sapeva ricavare i tessuti più pregevoli per qualità e tramatura.
I tanti regolamenti in termini sanitari, e le ripetute sospensioni dell’attività dei maceratoi (siamo in un periodo in cui imperversa il colera in Italia e in Europa, ed altre epidemie erano in agguato e le condizioni igieniche della popolazione erano allarmanti) per limitare le conseguenze dell’aria malsana, non impedirono, tuttavia, la chiusura dell’attività ratificata nel 1872 per Decreto reale.
Il lino, fino a ieri, era stato oggetto di coltura e cultura familiare per i propri bisogni e non vi era famiglia che non fosse impegnata nella sua coltivazione, nella trasformazione o nella tessitura di biancheria per il corredo.
La sua coltivazione si ripresenta ma negli anni ‘50 il lino scomparve nuovamente dalle campagne siciliane quasi definitivamente a causa dell’inadeguatezza dei mezzi tecnici che non si erano ammodernati con il tempo e per le sempre più pressanti problematiche relative alle norme sanitarie. Nei Nebrodi, la coltivazione del lino era strettamente legata alla cultura e alle tradizioni locali.
In alcune zone, i raccolti di lino erano celebrati con feste e riti propiziatori, mentre la tessitura delle fibre diventava un momento di aggregazione sociale, in cui si tramandavano saperi e leggende.
La tessitura era considerata un’arte sacra, un mestiere che richiedeva grande abilità e che veniva tramandato di generazione in generazione. Grazie al prezioso lavoro svolto, nel secolo scorso, dal musicista e compositore, innamorato dei canti popolari, Alberto Favara, oggi ci è possibile conoscere ed apprezzare il testo di un antico canto del lino che le donne intonavano scandendo il lavoro sul telaio:
Cori cuntenti mi pozzu chiamari.
E ora chi appista pisa di linu.
C'è me' mugghieri chi sapi fiilari.
E ogni se' misi lu so' fusu è chinu chinu.
Sparagnatuura nun si po' truvari, Sparagna l'acqua e si viivi lu vinu.
Quattru cent'anni mi pozza campari,
E l'ultimu jornu dumani matinu.
Cuore contento mi posso sentire. E
una volte battute le mazzette di lino.
C'è mia moglie che le sa filare.
E ogni sei mesi il suo fuso è pieno.
Risparmiatori non se ne possono trovare.
Se si risparmia l'acqua, e si beve il vino.
Si può vivere quattrocento anni,
E l'ultimo giorno pure domattina
Favara, durante il suo lavoro di raccolta, trascrisse queste strofe da Antonina Vario di Erice. Nei versi le donne cantano, ma nei panni dei loro uomini, che si pregiavano di avere delle mogli che sanno filare il lino.
Poi il canto ammonisce contro l'avarizia, ridicolizzando i "sparagnatura", dato che la morte può sopraggiungere da un momento all'altro e costringere ad abbandonare tutto quello che si ritiene di nostra proprietà.
La storia della coltivazione del lino in Sicilia ed in particolare sui Nebrodi riflette l’intreccio tra natura, cultura e tradizioni che da sempre hanno caratterizzato l’isola.
L’impegno per la riscoperta di questa antica pratica agricola permette non solo di preservare il patrimonio culturale, ma anche di promuovere un’agricoltura più rispettosa dell’ambiente.
La fibra di lino siciliana, simbolo di purezza e resistenza, continua a raccontare, ancora oggi, una storia di pazienza, abilità e amore per la terra.
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