LE STORIE DI IERI
Matteo Lo Vecchio, sbirro del Papa e per giunta scomunicato
Santa Ninfa e Sant’Oliva, tradizionali protettrici di Palermo prima di venire messe in qualche modo da parte dalle presunte ossa della Santuzza, non protessero abbastanza lo scomunicato che una sera di prima estate, nel 1719, cadde pesantemente ai piedi delle relative statue sulle balate del Cassaro. Giusto a cento metri dall’orologio della Cattedrale. Forse anche perché il caduto, cui due scopettonate a mitraglia avevano squarciato il petto, era Matteo Lo Vecchio, il più infame degli sbirri che da anni aveva servito, da rozzo doppiogiochista, tutti i padroni della città e dell’Isola. E che al servizio del Pontefice, aveva consegnato agli sgherri papali i religiosi che, per antico e regale privilegio, in Sicilia si consideravano sottratti alla giurisidizione del Vicario di Cristo. Per cui fu scontato, anche se non del tutto immaginabile, che il relativo funerale dell’indomani sarebbe stato il più bislacco e violento di qualsiasi altro prima e dopo quella data. Infatti la stessa sera dell’omicidio, il cadavere - che rimase con gli occhi spalancati perchè nessuno volle chiuderglieli, e con in volto la smorfia spaventosa dell’ultimo spasimo - fu messo a sedere alla bell’e meglio in una delle più economiche “sedie volanti” e condotto nello stambugio dove lo sbirro aveva casa, in un vicolo dell’Albergheria che ancora porta il suo nome.
Ma le cose si misero anche peggio pure là perché il romito, che era anche il custode delle spoglie dei palermitani ultimi della terra, si presentò addirittura armato di una specie di “trombone” - di quelli che si caricavano a mitraglia fatta di chiodi e pezzi di ferro - e chiarì definitivamente le idee ai “bastasi di cinghia” che dopo essersi guardati negli occhi attraverso i buchi dei cappucci se la dettero definitivamente a gambe lasciando il cadavere all’ingresso del modesto cimitero. I palermitanisti d’oggi raccontano che mani anonime, forse non del tutto pietose, scaraventarono in fondo al primo pozzo secco che trovarono il cadavere ormai nudo e perciò ancora più orribile di Matteo Lo Vecchio. Spogliato perfino dell’uniforme da sbirro nuova di zecca. In appresso, solo Leonardo Sciascia, nel 1969, sicuramente sconcertato da questa storia propose il dono di una rosa anche per Matteo Lo Vecchio. Lo scomunicato e cane che non conobbe padrone, come alla sua epoca in molti lo definirono. Una spoglia umana tuttavia, che da così lungo tempo dormiva “in fondo a un pozzo secco, accanto al cadavere dello Stato”.
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