PERSONAGGI
Anima rivoluzionaria, patì pure la fame: chi fu Emanuele, il principe "indipendentista"
La storia del Principe di Pantelleria, che ha servito la Sicilia. Non sappiamo se volesse una forma di governo repubblicana, ma certamente una più democratica
Palazzo Varvaro Pantelleria
Comincia così, con queste accorate parole incise su una larga targa marmorea apposta sulla facciata di Palazzo Varvaro Pantelleria in piazza Meli, a Palermo, l'affettuosa dedica con cui il popolo palermitano volle ricordare Emanuele Requesens, Cavaliere dell'Ordine di Malta e fervente indipendentista.
Emanuele nacque da Francesco Requesens e da Marianna Bonanno dei Principi della Cattolica; era figlio cadetto e la sua famiglia non possedeva un grande censo.
Dal momento che il patrimonio spettava al primogenito, si dedicò agli studi e fu educato per essere un perfetto gentiluomo; venne ammesso alla carriera militare col grado di capitano.
Gli anni successivi non furono semplici: il re Ferdinando di Borbone non teneva in nessuna considerazione i nobili siciliani, li disprezzava; eppure quando nel 1798 i francesi occuparono Napoli i sovrani implorarono l’aiuto delle famiglie aristocratiche dell'Isola.
Dopo pochi mesi, cessato il pericolo, re Ferdinando e la sua corte lasciavano Palermo, per il Continente e tutto tornava come prima. Fu questo un momento decisivo nella vita di Emanuele che sedette in Parlamento, all'opposizione, sostenendo i diritti della Sicilia e dei siciliani.
Erano tempi feroci, in cui si adoperavano il carcere, la ghigliottina, i veleni…Il gesuita Strasoldi, confessore del re, era morto all'improvviso, dopo esser stato minacciato dalla sovrana pubblicamente e dopo una colica molto sospetta…
Emanuele si segnalò per la fermezza dei principi l'onestà e l'affetto per la patria: la Sicilia. Molti compagni ricevevano onori e compensi, ma Emanuele in mezzo a tanta corruzione si manteneva saldo.
Si pensi che il fratello maggiore di lui, il principe di Pantelleria, avrebbe lasciato le file dei patrioti per assumere nel 1802 un incarico politico. Nel 1806 i sovrani tornavano in Sicilia per sfuggire nuovamente ai francesi.
I britannici e la classe baronale siciliana forzarono i Borbone allora a promulgare nel 1812 una nuova costituzione (alquanto liberale per quei tempi).
Sedate più tardi le turbolenze sul Continente, Ferdinando tornava definitivamente a Napoli, senza alcuna riconoscenza per l'ospitalità siciliana anzi l'Isola tornava ad essere calpestata: nel 1816 veniva messa in atto l'annessione del Regno di Sicilia e il re fino ad allora III di Sicilia e IV di Napoli, diventava Ferdinando I del Regno delle Due Sicilie.
Il desiderio d'indipendenza cominciava a farsi prepotente, anche perché dopo il congresso di Vienna, Ferdinando aveva abolito immediatamente la costituzione e il 1820 sembrava il momento opportuno: la rivoluzione scoppiata in Spagna aveva elettrizzato l'Europa.
Il 14 Luglio, in una Palermo parata a festa per la patrona Rosalia, un brigantino con a bordo diversi carbonari sbarcava in città: i carbonari si mischiarono tra la folla del Cassaro, gridando: «Viva la Costituzione di Spagna, viva la Carboneria!».
Il popolo applaudiva e aggiungeva: «Viva l'Indipendenza!». Si sparse pure la voce che Emanuele Requesens, salito in quei giorni al grado di colonnello e investito intanto del titolo di principe di Pantelleria nel 1817, si sarebbe l'indomani messo alla testa delle milizie.
Furono in tanti a precipitarsi a casa del principe, per avere conferma, ma lo trovarono infermo, con un attacco di gotta, dunque la notizia circolata era falsa.
Nel frattempo però la plebe sfrenata era penetrata nel forte del Castellammare e si era impadronita delle munizioni e delle armi in deposito. Uomini armati usciti dal carcere si abbandonavano ad ogni atto di violenza, gli uffici pubblici venivano saccheggiati, i documenti distrutti.
La città aveva un aspetto davvero desolante…era un inferno! Alcuni cittadini proposero al Cardinale Gravina di prendere provvisoriamente le redini del governo e l'onesto prelato accettò l'ingrato compito a patto però di avere la collaborazione di una giunta di autorevoli cittadini.
Emanuele entrò a far parte della giunta, che, avvalendosi del prestigio di cui godevano i suoi membri, riuscì a riportare la situazione alla normalità.
Vennero creati una guardia di sicurezza interna e un esercito, guidato dallo stesso Emanuele Requesens, che impose il rispetto delle leggi e della proprietà ai facinerosi. Requesens fu l'anima della rivoluzione del 1820.
«Cittadino operoso, governatore integerrimo, militare sagace e attivissimo, quest'uomo si moltiplicava a servizio del proprio paese…senza di lui nome popolarissimo non avrebbe potuto quel movimento aver vita e durare». (P. Messineo).
Non sappiamo se Emanuele stesso desiderasse per la Sicilia una forma di governo repubblicana, ma certamente desiderava uno stato più liberale e democratico.
Non rivelò mai il suo pensiero; il suo unico scopo fu quello di tutelare la quiete all'interno della città, il rispetto delle leggi e il buon governo delle altre province.
Quando il Parlamento siciliano inviò una delegazione presso il governo di Napoli per chiedere il ripristino formale del Regno di Sicilia, seppur sempre a guida borbonica e della Costituzione siciliana del 1812, ottenne come risposta l'invio nell'Isola di numeroso esercito (circa 6500 soldati) agli ordini del generale Florestano Pepe, che giunse fino alle porte di Palermo.
Emanuele giorno e notte dava disposizioni, correndo da un lato all'altro della città. Dopo alcuni combattimenti, con alterne fortune, Florestano Pepe decideva di venir a patti con i siciliani e sul cutter inglese Rancer, il 5 ottobre 1820, alla presenza tra gli altri del principe di Pantelleria, veniva firmata la Convenzione secondo la quale Sua Maestà il re avrebbe conservato la Costituzione Spagnola.
Le cose andarono diversamente: il Parlamento appena eletto a Napoli rifiutò la Convenzione e il 14 ottobre richiamò Pepe e inviò il generale Pietro Colletta che riconquistò la Sicilia dopo lotte sanguinose: di costituzione non si parlò più.
Ci furono persecuzioni, carcerazioni, patiboli innalzati. In molti scelsero l’esilio, tra cui il principe di Pantelleria, che non volle farsi «spettatore dell'eccidio della patria sua» (P. Messineo) e si trasferì a Roma con la moglie.
Il governo di Napoli sequestrò i suoi beni, così negli anni dell'esilio soffrì varie tribolazioni. Emanuele e la moglie si mantennero lavorando: lui faceva l'insegnante, lei la collaboratrice domestica.
Soffrivano la fame ed erano tenuti d'occhio dalla polizia papalina, che spesso faceva sortite e perquisizioni in casa loro. Emanuele molto provato nel fisico e nell'animo, arrivò a invocare la morte. Finalmente nel 1832 gli venne invece concesso di tornare in Sicilia e di poter ottenere qualcosa sui beni sequestrati.
Da allora visse ritirato in casa, tra affetti familiari e studi. Nel 1835, viste le precarie condizioni economiche e i debiti fu costretto a vendere il palazzo Requesens che sorgeva in Piazza Meli, alle spalle della chiesa di San Domenico.
L'edificio venne acquistato dal commerciante Francesco Varvaro Querola che lo avrebbe utilizzato sia come abitazione che come sede delle sue attività.
Varvaro non aveva dimenticato l’impegno politico di Emanuele, ribelle rivoluzionario, che aveva speso la sua vita per i suoi ideali e decise allora di assegnargli un'ala del palazzo appena acquistato, perché potesse viverci fino alla fine dei suoi giorni.
Perduta nell'epidemia di colera del 1837 la moglie, non avendo figli, il principe chiamò accanto a sé un nipote e si dedicò solo a lui e a fare beneficenza.
Nel 1847 fu eletto Papa col nome di Pio IX il cardinale Giovanni Maria Mastai Ferretti , che inaugurò il suo pontificato il 16 luglio 1846, un mese dopo la sua elezione, con una amnistia per i reati politici: i liberali e i democratici videro nel nuovo pontefice un paladino delle loro battaglie, la Sicilia intravide destini migliori…
Il vecchio cospiratore, il Capitano Generale del 1820, Emanuele Requesens pianse di gioia «Ora posso morire contento!», si disse.
Le sue attese furono disattese, Ferdinando II disprezzò le preghiere del popolo siciliano e il 12 gennaio 1848 gli insorti sotto la guida di Rosolino Pilo e di Giuseppe La Masa scesero in piazza a sfidare le ire del tiranno.
Il 13 gennaio alcuni distinti cittadini trassero dal Palazzo Pantelleria Emanuele invitandolo a non negare alla patria il suo nome rispettabile e la sua esperienza.
Fu condotto in trionfo al palazzo di città, sede del governo provvisorio e venne nominato presidente del comitato per la guerra, lavorando a fianco di Ruggiero Settimo, Mariano Stabile, Pasquale calvi, ecc.
Sulla città fioccavano le bombe, nel tentativo di colpire il Castellammare e il palazzo di città. Emanuele, avanti negli anni, malato, dimostrava sprezzo del pericolo per amor di Patria.
Nelle altre città dell'Isola, avvennero diverse sollevazioni: al Comitato generale siciliano di Palermo a fine mese arrivarono le adesioni di oltre 100 comuni dell'isola, che avevano aderito alla rivoluzione.
L'esercito borbonico, oppose una debole resistenza e si ritirò dall'Isola. Il 23 gennaio si riunì a Palermo il Comitato Generale, che dichiarò la monarchia borbonica ufficialmente decaduta.
Il 16 marzo Emanuele Requesens tornava a casa stanco e affaticato, molto agitato, il giorno seguente avrebbe accusato un colpo apoplettico.
Sopportò con coraggio il dolore, sentendo avvicinarsi la morte: «Ben moro contento or che la patria nostra è libera» disse.
Il 24 marzo il Principe di Pantelleria spirava, sereno in coscienza di aver servito con affetto e disinteresse la Sicilia e proprio il 25 marzo veniva proclamato il Regno di Sicilia.
Il nuovo Regno indipendente sopravvisse fino al maggio del 1849, quando si completò la riconquista borbonica: il 15 maggio 1849, cadeva con Palermo l'intera isola e le speranze siciliane di libertà e autonomia svanivano definitivamente.
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