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Altro che smartphone, in Sicilia bastavano due legni: chi si ricorda della "manciugghia"
Ha moltissimi nomi a seconda delle zone dell'Isola, la lippa (in italiano) rappresenta una sorta di baseball siciliano praticato con due manici di scopa tagliati
Proprio qui, negli anni ‘60/‘70 in Sicilia, ogni palo, sanpietrino e muro (specie quelli delle piazze e curtigghi) diventano i biglietti di ingresso per storie incredibili partorite da comitive dei più grandi e per giochi spassosi in quelle dei piccoli.
Diversivi ben lontani dagli odierni videogames o smartphone e che contavano sul minimo indispensabile: palloni, corde, biglie, sassolini, elastici, gessetti e tuppetti dai giri quasi infiniti.
E poi c’era il gioco con i manici di scopa, detto manciùgghia (lippa in italiano) che in base ai luoghi dell’Isola cambiava nome: a Messina “ô ligneddu”, a Polizzi “ô lignuzzu” ad Agrigento “a mazzi”, a Catania “a firredda”, a Licata “a firlazzeddu”, a Riesi “a ferra a mme”, a Siracusa “l'acitu e a pammu” o “scanneddu”.
Praticato dai bambini più grandi, richiedeva squadre con 2 o più giocatori e spazi liberi per scongiurare buchi nelle finestre dei vicini o peggio, ferite pericolose.
L'occorrente, come ci si può immaginare, era basilare: tre pezzi di legno (i vecchi manici di scopa di mamme e nonne erano l’ideale) due di circa 50 cm, le mazze; e uno più piccolo, il piolo, alle cui estremità venivano create delle punte, chiamato scanneddu.
La mazza era lo strumento principale su cui veniva infusa tutta la propria forza, così da riuscire nell’impresa: mandare lo scanneddu il più lontano possibile. Ma prima del gioco c’era una fase preparatoria non indifferente, cioè la decisione del primo battitore.
A questo proposito, si poggiava la mazza tra due pietre e si colpiva con lo scanneddu. Quando la mazza cadeva completamente a terra erano 100 punti, mentre se ne scendeva solo una parte ci si doveva accontentare di 50. Il primo battitore era quello con il bottino di punti più alto.
Dopodiché, aveva inizio la partita.
In posizione, il giocatore impugnava saldamente la mazza per battere una delle punte dello scanneddu, posizionato dentro un cerchio (base) tracciato con il gesso.
Lo si alzava in aria e si colpiva con forza una seconda volta, in ricaduta, verso una destinazione non meglio precisata, ma che fosse sicuramente la più lontana. Il battitore veniva lasciato con le proprie forze a quel tentativo, anche perché stare troppo vicini sarebbe costata una mazzata dolorosa in faccia.
E quando il lancio avveniva, la squadra avversaria provava ad acciuffare lo scanneddu in volo; se riuscivano, il battitore era eliminato. Se lo scanneddu, invece, arrivava troppo lontano, si segnava con una X la distanza dalla base al luogo del ritrovamento che sarebbe valsa la vittoria, la disfatta o più punti in base alle proprie regole.
E così via: ogni giocatore faceva il suo tiro e se ne misurava accuratamente il tratto da cui partire. Il punteggio era incarnato dalle mazze, invece dei numeri: più mazze raggiungevi, più la vittoria era in tasca.
Pazienza, agilità e precisione erano i fattori determinanti per ogni battuta che si acquisivano nel tempo e con diverse mazzate andate a vuoto. Tempo pure rivelatore dei vincitori, perché con una partita si poteva arrivare a 500 o 1000 punti, a seconda della ritirata e degli impegni di ciascun giocatore.
Così, giunta l’ora X, quelle stesse strade perdevano eco di risate, canzoncine e schiamazzi. Ci si separava da vincitori in ogni caso, nessuno era perdente, perché si era difesa fino all’ultimo la gara e la propria squadra, in molti casi con nuovi amici al suo interno.
E andava bene così, mentre si rincasava guidati dalle voci delle mamme alias vedette sui balconi e si prometteva la rivincita l’indomani. Appuntamento allo stesso posto, ora e via, con le immancabili mazze e scanneddu al seguito.
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