STORIA E TRADIZIONI
Vedova "d'arte" e amabile custode: la Sicilia depredata delle sue opere tutelava quelle altrui
Il furto dei beni e delle bellezze siciliane è una storia antica, da Verre alla Mafia la storia si è ripetuta. Eppure in Sicilia furono nascosti e protetti diversi capolavori provenienti da altre regioni
Dettaglio della Venere de' Medici conservata alla Galleria degli Uffizi
Il “Corso” non era un esperto d’arte, nato da oriundi italiani, crebbe però con questa cultura, sentendo l’Italia più vicina di quanto immaginiamo, tanto da voler ricreare un nuovo Impero, sotto l’influenza e il fascino del Princeps Augusto.
L’importanza dell’arte come strumento di prestigio e propaganda fu chiaro a Napoleone che aveva necessità di legittimare un regime nato da una rivoluzione.
Fu così che iniziò la razzia di opere d’arte effettuata tra il 1796 e il 1815 durante le campagne militari, a vantaggio soprattutto del Museo del Louvre. Furono prelevate solo in Italia 506 capolavori, 248 sono ancora in Francia, 9 dispersi, alcuni cedute ad altri musei, il resto restituiti nel tempo.
Furono portati via disegni preparatori, preziosi codici e libri, tra cui il Codice Atlantico di Leonardo, una delle prime copie della "Storia della guerra giudaica" di Giuseppe Flavio, il manoscritto delle Bucoliche di Virgilio. E fu portato in Francia dal 1813 al 1822, anche, lo "Spasimo di Sicilia"; un dipinto di Raffaello commissionato intorno al 1517 dal Monastero Olivetano di Santa Maria dello Spasimo. Il quadro acquistato da un Vicerè spagnolo sarà donato al Re Filippo IV. Terminata la permanenza in Francia “Lo Spasimo” sarà poi restituito alla Spagna, oggi è al Museo del Prado.
Furono furti su commissione, Napoleone incaricò storici e studiosi dell’arte di redigere scrupolosamente un elenco e quando non furono loro a indicare cosa doveva essere prelevato, fu lo stesso Corso che adocchiò le opere durante i suoi viaggi. Come avvenne nel 1796 quando vide a Firenze “la Venere de’ Medici”, scherzando disse al direttore “ La Toscana farebbe bene a restare neutrale”, aggiungendo che quella statua mancava alle sale del suo Museo. La dichiarazione non passò inosservata a Tommaso Puccini, direttore della Galleria che incominciò a suggerire al Sovrano toscano di porre a riparo le opere. Nel 1799 si seppe che alcuni oggetti d’arte potevano essere “ portati via o venduti per far fronte ai bisogni dell’armata”. Da qui l’idea di nascondere le opere. Fu così che tra il 1799 e il 1800 il Cavalier Puccini fece imballare diversi capolavori della Real Galleria, tra cui la Venere Medicea.
Nel 1800 salpò con 75 casse dal porto di Livorno, destinazione Palermo. L’isola era uno dei pochi posti sicuri e a non essere occupata dai francesi. Il prezioso tesoro artistico fu posto sotto la tutela di Ferdinando III di Borbone, come racconta in un suo prezioso libro Chiara Pasquinelli.
Una volta sbarcate in città le casse, accompagnate dal Cavalier Puccini, furono nascoste presso il convento dei Gesuiti (alcuni dicono dei Cappuccini), da un funzionario di fiducia del re. A Puccini fu, di fatto, impedito di sorvegliare personalmente le opere, concedendogli una visita ogni 15 giorni. Soggiornando in segretezza, o almeno così pensava, raccontò nelle sue lettere di Palermo che trovò ospitale ma sudicia, ricca di bellezze non sufficientemente valorizzate.
Responsabile di tutti i capolavori, il suo amore fu sempre per la “ Venere Pudica “, ispirata all’Afrodite di Prassitele, arrivando a scrivere: “vado a fare una visita con il depositario alla mia bella, che prima di passarla in altre mani ho direi quasi infibulata, per assicurarmi quanto è possibile della sua fedeltà”. Autentica passione che durò fin quando i Commissari francesi non si accorsero della sparizione della statua da Firenze.
Da questo momento partirono loschi abboccamenti fatti di sottile pressioni, minacce e piaggerie ad opera di funzionari, diplomatici, ministri e che videro coinvolti anche i sovrani della Sicilia e della Toscana. Nel frattempo il quadro politico nei due anni successivi dall’arrivo delle casse, era cambiato e le opere furono restituite al Re d’Etruria, tutte, tranne una.
Infatti, Nel 1801 accertata la presenza della statua a Palermo, iniziò la pressione francese per chiedere il rientro delle opere, pressione che in realtà nascondeva un unico scopo impossessarsi della Venere. Fu detto che in tempo di pace era giusto che le casse rientrassero a Firenze e che in considerazione di quanto Napoleone aveva fatto per la Toscana, era doveroso riconoscergli un “petit cadeaux”. Vi fu inizialmente un rifiuto dal Primo Ministro toscano, ma nonostante questo continuarono le lusinghe e avvertimenti.
Furono inutili le vibranti proteste di Puccini, che scrisse accorate missive: durante una sua assenza dalla città, la Venere fu presa dal nascondiglio palermitano e spedita a Marsiglia, rimanendo a Parigi fino al 1816, quando sarà restituita a Firenze.
L’arrivo a Parigi fu comunicato a Napoleone con queste parole. “La Vénus est enfi arrivée”. Il povero Puccini fu ironicamente chiamato a Palermo il “vedovo della Venere Pudica”. Il Console di Francia gli dirà per consolarlo : “... non siate triste: bisogna bene che Venere raggiunga il suo Apollo”. Il Direttore risponderà: “È proprio ciò che mi dispiace, visto che quei due non riusciranno a fare dei figli, laggiù da voi”. Tommaso Puccini non vedrà il ritorno della sua Venere a casa.
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