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Un inganno (per fermare il tempo): forse non sai che il siciliano "non ha futuro"

Quando parliamo non ce ne rendiamo conto. Può darsi che siamo già così avanti che lo utilizziamo al presente. Proviamo a spiegarlo nell'articolo

Gianluca Tantillo
Appassionato di etnografia e storia
  • 26 settembre 2024

I palermitani laureati li riconosci perché usano il passato remoto per indicare un’azione svoltasi cinque minuti prima. Beh, a parte questo, è cosa proprio di noi siciliani vivere nel passato. Nel futuro pochi, pochissimi, giusto quattro gatti.

A pensare a questo benedetto futuro solamente qualche parente, qualche nonno, qualche zia amorevole, che, forte di tanta esperienza alle spalle, cerca di inculcarti la magica formula inascoltata: "se vuoi cambiare il domani devi cominciarci da oggi".

Già, proprio così, in modo da, un giorno, poter dire: “non sono più il co@#*+e di una volta, adesso sono il co@#*+e di oggi”.

In questo mia zia Agatina era una veggente. Tutto quello che prevedeva si realizzava: era una profe-zia. Aveva capito tutto e me lo ripeteva in continuazione: “lavora alla Regione e non lavorerai mai un giorno nella tua vita”. Adesso, a forza di proiettarsi sempre in quel maledettissimo futuro, zia Agatina è dimagrita… è ridotta un mucchio d’ossa… è nell’ossario.
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Il punto è: ma nel siciliano, nella lingua siciliana, il tempo verbale futuro non esiste oppure si ni fuìjiu? Boh, forse è solo un escamotage per fermare il tempo, forse una forma di pessimismo nei confronti del futuro.

D’altronde un ottimista non è altro che un pessimista male informato. Lo specificò pure Leonardo Sciascia alla giornalista Marcelle Padovani, in una intervista del 1979: «E come volete non essere pessimista in un paese in cui il futuro non esiste?».

Bisogna ubriacarsi per trovarci speranza; infatti, vedendoci lungo, un noto politologo siculo, citando Martin Luther King, disse: "I am a drink". Secondo queste visioni, un popolo che non ha un futuro nella propria lingua non è quindi in grado di ragionare pro-futuro.

Bisogna crederci? Suvvia, sono tutte baggianate! Basta prendere il trafiletto sul Monitore Ferroviario del 15 maggio 1864 per rendersene conto: “Corre voce che la Società delle Ferrovie V.E. sia per intraprendere i lavori di un gigantesco ponte sullo Stretto di Messina”.

Altro che niente futuro, eravamo a metà dell’800 e già pensavamo al 2024! D’altro canto, se in Sicilia non abbiamo ancora le strade non è fallo di nessuno, tantomeno della classe politica.

Da una parte ci colpano i Maya che avevano detto che il mondo sarebbe dovuto finire nel 2012, quindi non conveniva farle, dall’altra parte ci colpa Steven Spielberg con Ritorno al Futuro II.

Cioè, se nel 2015 avrebbero dovuto esserci le macchine volanti, perché dovevamo fare le strade? Per restare in tema di citazioni, "in verità vi dico" che la World Atlas of Language Structures ha analizzato 222 lingue sottolineando che 112 di queste non sono provviste nella loro costruzione sintattica di un futuro apposito.

Pertanto, dobbiamo affermare: non è vero che il siciliano non tiene futuro, semplicemente lo utilizza in maniera diversa. Anzi, per dirla tutta, siamo già così avanti nel futuro che lo utilizziamo al presente.

Esempio: domani devo andare, più tardi devo comprare, la prossima settima faccio, fra un mese dico, tra un anno vedo. In questi casi specifici, per raccontarla in temini tecnici, facciamo uso di indicativo presente con specificatori temporali, tipo: "Domani mi ammazzo" ovvero “mi ammazzo-quando?-domani”, oppure del futuro analitico (o perifrastico), composto dal verbo aviri + più verbo all’infinito: haiu a ghiri, haiu a fari.

Da qui tutte quelle forme: devo andare al mare, devo mangiare, devo fare all’amore, perché noi siciliani ni siddìa così tanto a campare che pure i piaceri diventano imposizioni.

Del resto, se non avessimo avuto futuro, perché l’esistenza di proverbi proiettati al domani? “Càlati juncu ca passa la china”, “chiavi d'oru apri ad ogni parti”, “ci dissi 'u succi'a nuci: dammi tempu ca ti spirtusu”, "cu' campa di spiranza dispiratu mori”, "megghiu asinu vivu ca dutturi mortu”, “pacenzia caru amicu a li burraschi, ca nun si mangia meli senza muschi”, “prumettiri è viggilia di lu dari” e tanti altri.

D’accordo, ma vieni e dici: alla fine ‘stu futuro non c’è mai stato e si ni fuìjo? In realtà, anticamente il futuro c’era eccome nella lingua siciliana.

A testimoniarcelo svariate produzioni letterarie dei tempi andati. Vi riporto giusto un paio di esempi. “Lu quartu comandamentu è tali: -Honura lu tuo patri et la tua matri, et vivirai longamenti supra la terra-“. [Libru di li vitii et di li virtuti (1360-1379)] “(…) non livirìa la vita ad Adam quandu et da mentri ki Adamamirà Deu.

[Sposizione del Vangelo della Passione (1373)] Di questi casi ce ne sono molti altri e cercando nei vecchi testi ci si può imbattere in forme come: Io farrò, farrai, farrà.

Il futuro quindi c’era e lentamente, non si sa perché, cominciò a sparire, o se preferite si ni fuìjo. Ad oggi, a quanto mi hanno riferito, ma questo potrà confermarmelo qualche lettore, alcune forme di futuro resistono solo in determinati dialetti del messinese.

Ora che ci penso, mi venne così, esiste un modo dire in siciliano che il futuro lo tiene: "munnu ha stato e munnu sarà". O almeno si spera “sarà”, datosi che, qua, per dirla come il tedesco Karl Valenti: “perfino il futuro una volta era meglio”.
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