STORIA E TRADIZIONI
"U figghiu sputatu": quei rituali di nascita usati nel vecchio mondo contadino siciliano
Credenze, preghiere e gesti si manifestavano subito, prima che il bimbo nascesse, si intensificavano le prime notti per la minaccia delle streghe e proseguivano per tutta la vita
Cav. E. Interguglielmi, "Ritratto di bambini", 1910, platinotipia, 14,5x10 cm, dettaglio [da "Gli Interguglielmi. Una dinastia di fotografi", Sellerio, Palermo, 2003]
Figghi tardii, orfani primintii, recita un proverbio che allude alla speranza di una nascita né troppo precoce né soprattutto troppo tarda, al fine di godersi i figli il più possibile! Lu disiu, lu spinnu (le ‘voglie ghiotte’) della donna prena (‘incinta’) va sempre assecondato, altrimenti nasce un bambino con macchie cutanee (voglie per l’appunto) dalle forme simili ai cibi desiderati (fragole, ciliegie, cioccolato, ricotta etc.).
All’epoca si credeva che il nascituro, in mancanza di ecografia, fosse maschio o femmina a seconda dell’intensità dei calci tirati in pancia, evidentemente più forte nel primo caso, e che la sua bellezza potesse essere compromessa dallo sguardo casualmente rivolto dalla madre a una persona brutta o deforme, senza aver esclamato lo scongiuro Diu ca lu fici!
Sopraggiunte le doglie, il parto veniva seguito da una figura significativa, la mammana (‘levatrice’), e dalla sua cummari aiutante, che essendo donne, si pensava avessero più esperienza del medico al riguardo.
Queste mammane – spesso pettegole che creavano attriti nelle famiglie con il loro straparlare – erano presenti sin da subito e sostenevano, concitate, con espressioni del tipo Forza e curaggio! la partoriente che iniziava a sputari o sgravari u figghiu.
Intervenivano anche con rituali e formule magico-apotropaiche in caso di problemi e ostacoli al parto, qualora, per esempio, la donna fosse stata di facili costumi (in disgrazia di Dio) oppure vittima di una fattura o della sfortuna.
Per agevolare il parto erano adottati numerosi rimedi, si davano da bere pozioni con petali di rosa consacrati alla Madonna e s’invocavano tutti i Santi possibili, Santa Leocarda in primis, ritenuta la protettrice delle puerpere.
Nato il bimbo, la mammana battezzava subito il suo figlioccio come fosse un sacerdote (Iu ti battizzu a nnomu di lu Patri, di lu Figghiu e di lu Spiritu Santu), recideva il cordone ombelicale, lo bruciava con una candela accesa e ne “leggeva” i nodi, profetizzando il numero di figli o di nozze che la creatura avrebbe avuto nella sua vita; spalmava poi di sangue la sua faccina, affinché non dovesse un giorno morire assassinata da qualcuno.
Se il bimbo nasceva col cordone stretto al collo era presagio di futura morte per soffocamento o annegamento. E in caso di accidentale asfissia post partum, le mammane intervenivano solleticando le piante dei piedi del neonato, bruciandogli sotto il naso le secondine (gli annessi fetali espulsi col parto), soffiando tabacco o inserendogli il rostro di una gallina nell’ano!
Addrizzavano poi le ossa del bimbo con manovre decise, gli recidevano con l’unghia del dito, immerso in un vasetto di acqua calda zuccherata (u sgàrgiu), il frenulo della lingua per scongiurare la balbuzie e lo lavavano con acqua ed erbe aromatiche, gettando poi nel cesso, sotto il letto o sotto il forno l’acqua della femminuccia, destinata a diventare una buona moglie e donna di casa (se l’acqua fosse stata gettata fuori di casa, la bimba un giorno sarebbe diventata una baldracca), e per strada, quella del maschietto, indirizzato al lavoro (se fosse stata gettata dentro, il bimbo sarebbe diventato invece affimminatu).
I neonati venivano poi stretti nelle fasce (così da adulti sarebbero stati magri!), insieme all’abbizzè (‘abc’), un libretto con immagini sacre e preghiere contro malefici e malocchio.
Le parti intime delle bambine venivano spesso cosparse di zucchero e cannella, per renderle più duci (‘dolci’) al futuro marito, oppure l’ombelico di sale e la bocca di miele affinché da adulte fossero saporite, graziose e ricercate. All’ombelico dei maschietti, invece, si metteva un abecedario come augurio di ingegno e destrezza, perché crescessero alletterati.
Tutte le secondine, compresa la placenta – tramite un altro scongiuro accompagnato da segni praticati sull’addome, Niesci, cosa fitenti, cà lu cumanna Diu ‘nniputenti – venivano estratte dall’utero, mostrate ai parenti (testimoni così del fatto che nulla fosse rimasto dentro), amalgamate non di rado a sale e pangrattato e gettate in mare o in un fiume lontano, per evitare che si abbattessero sciagure sulla casa.
Contro le strii (‘streghe’) o donni di fora e i patruneddi, che potevano manifestarsi nelle prime notti di vita del neonato, non ancora battezzato, per ucciderlo, cambiarlo, spostarlo dalla culla, fargli dispetti (come le terribili trizzi ai capelli), si tenevano i lumi accesi e soprattutto si affiggevano su porte e finestre rosari e immagini sacre, oppure si cospargevano tutte le aperture di casa con il sale, affinché, nel primo caso fuggissero infastidite e nel secondo fossero costrette prima di entrare – come il diavolo – a contare i singoli grani di sale.
Seguivano le visite di parenti e amiche, che ostentavano abiti ricercati in casa della madre.
Il neonato poteva trovarsi in allattamento tra i seni della madre oppure dondolato in culla (non si dondola mai una culla vuota perché si possono arrecare dolori e morte al bimbo), con ninna nanne rassicuranti e concilianti il sonno: Mè figghiu è beddu e mè figghiu è galanti, / Mè figghiu havi lu nnomu di li Santi. / […] Dormi, dormi e fa’ la vò (‘bobò’, ‘sonno’) / Ca è ccà la matruzza tò.
Al collo del neonato come sulla culla si mettevano sacchetti con immaginette sacre, collanine di vetro o d’ambra, conchiglie bucate, corna e corni rossi, medagliette con immagini di santi, piccole croci d’argento, sonagli, campanelli e ciondoli di ogni genere contro il malocchio e le forze ostili.
Se il piccolo sbadigliava, gli si faceva il segno della croce sulla boccuccia, per scongiurare l’ingresso di un essere – come accade con lo scantu – che avrebbe potuto renderlo liggiuliddu (‘scemo’).
Alle donne con le mestruazioni era inoltre proibito ogni bacio, poiché poteva provocare al neonato piaghe nella bocca e dermatiti infantili come le croste lattee. I neonati, inoltre, non venivano puliti subito e troppo: si credeva che la pipì che ristagnava nelle brache rafforzasse le gambe e che, data da bere, consentisse loro di imparare presto a parlare.
Le irritazioni alla pelle che ne fossero scaturite potevano essere lenite con la polvere di legno tarlato o la saliva della mamma.
Una volta spuntati i dentini, il bimbo si riteneva spoppato (‘svezzato’) e libero dalle mille attenzioni, materiali e simboliche: Cui prestu metti li denti, prestu lassa li parenti. Per fari assiccari il latte non più necessario, la madre si metteva allora sul seno una chiave di ferro, foglioline di menta, unguenti oleosi o impasti di crusca e miele, oppure si faceva praticare dei salassi.
E il ruolo del padre? Nel mondo contadino il pater familias iniziava a interessarsi ai figli quando questi fossero tornati utili alla sussistenza del nucleo familiare.
Poche le carezze, rare le lacrime in caso di morte (la mortalità infantile del resto era all’epoca più alta e molto comune): "è andato a crescere le schiere degli Angeli!", avrebbe esclamato un padre a lutto. Lacrime imparagonabili alla tragica perdita del proprio animale, asino, gallina, maiale o cane che fosse.
L’educazione dei figli era alquanto spartana, limitata a un indiscutibile e granitico rispetto per i propri genitori, le ferree regole familiari e i ruoli rivestiti in casa come al lavoro. L’esempio morale della famiglia d’origine e le pratiche religiose condivise nella comunità di appartenenza completavano la formazione del bambino durante la sua crescita.
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