ITINERARI E LUOGHI
Si dice che qui l'aria faccia proprio bene: dov'è in Sicilia il "Piano del Medico"
Un corridoio naturale che custodisce il "masso della salute", un punto preciso ricco di particelle che rafforzano le difese immunitarie e tengono lontane le malattie
Un angolo di Piano aria del Medico (foto di Santo Forlì)
Abbiamo iniziato percorrendo il greto del torrente omonimo ormai asciutto e sassoso nella sua parte inferiore, ma coperto da vegetazione palustre come boschetti di canne e soprattutto ospitante grandi e numerose piante di ricino capaci da sole di formare un cespuglio con i rami esili ma con foglie larghissime e con grappoli spinosi.
Questi contengono le bacche da cui una volta si estraeva un olio usato come ricostituente per i bambini gracili. Esso però aveva un sapore sgradevole e costituiva uno spauracchio, per cui il suo effettivo uso il più delle volte era soltanto minacciato per indurre i pargoli a non fare capricci a tavola.
Sui versanti di modesta acclività del torrente, vicini alle principali vie di comunicazione con la città sorgono le abitazioni del villaggio e sorge delimitata da un cortile protetto da mura e da un cancello in ferro battuto la seicentesca chiesa di Santa Nicola. Invece un po’ più su ci siamo incamminati per un altopiano sgombro di costruzioni ma ospitante campi coltivati.
Tant’è che esisteva questo detto: «Si piange quando le si lavora, ma si ride quando si raccoglie». Questa terra ospitava dei ricchi vigneti da cui si ricavava un vino di qualità superiore, tanto che si tramanda un altro detto: «Mangiare a Cumia (villaggio vicino), ma bere a Bordonaro».
Abbiamo fatto un giro per i campi ubertosi e ci siamo imbattuti in un dammuso piuttosto grande del 1500, una solida costruzione capace di resistere nel tempo perché il peso è scaricato su tutti i lati, esso sfrutta la concezione dell’arco a botte dei romani. Abbiamo proseguito il nostro cammino su un sentiero di raccordo che si snodava in mezzo agli ordinati oliveti e alle vigne.
Crescevano anche le erbe spontanee alimurgiche come il finocchietto i cui ciuffi rigogliosi dopo le finalmente abbondanti piogge coloravano le zolle di un verde intenso. C’era anche l’alloro dei poeti, ma molto prosaicamente ne sono stati raccolti alcuni rametti (Ntanni in dialetto) per utilizzarne le foglie per ricavare degli infusi.
Anche l’olezzante rosmarino con i piccini fiorellini turchini è stato apprezzato per insaporire dei cibi.
Comunque, camminando siamo giunti alla portella Piano aria del Medico, uno spazio scoperto, un corridoio fra le montagne in cui si dice che l’aria è ricca di terpeni, particelle molto salubri che contribuiscono a rafforzare le difese immunitarie delle persone tenendo lontane le malattie.
In questa zona esiste il masso della salute indicante proprio il punto preciso in cui l’aria è più benefica.
Proseguendo invece di esserci «La stanza del vescovo» come nel romanzo di Piero Chiara, vi è la casa del cardinale in parte scoperchiata e in stato di abbandono ma di cui ancora resistono il balconcino panciuto e una scalinata laterale costeggiare l’edificio con vista sul mare.
Le donzelle presenti l’hanno voluta salire per farsi fotografare in quello che poteva somigliare al balcone di Giulietta. Abbiamo continuato questo trekking agreste in una cornice paesaggistica dal profilo morbido e soffusa di tenui colori da farci venire in mente alcuni dipinti paesaggistici di pittori del Rinascimento: Giorgione in primis. Scesi dall’altopiano abbiamo percorso una trazzera costeggiata su un lato da una bianca parete rocciosa scavata in alcuni punti per farne delle grotte riparo per gli attrezzi agricoli o altro.
Proseguendo abbiamo notato ancora altri massi e più in avanti una massiccia costruzione con spessi muri di pietra. La nostra guida ci ha spiegato che essa era una calcara, ovvero una fornace per la produzione della calce.
Questa era riempita con la pietra calcarea che per potere essere trasportata bisognava frantumarne dei grossi blocchi con degli esplosivi innestati da una miccia abbastanza lunga per consentire agli operai di avere il tempo per mettersi al sicuro. Per evitare di colpire qualche ignaro passante si incaricava un operaio di gridare a squarciagola: «Brucia la mina!»
Sotto la fornace vi era un’apertura da cui essa era alimentata mediante la combustione delle frasche raccolte dalle donne e più economiche del legno. Queste bruciavano per alcuni giorni le pietre calcaree che ad alte temperature si scioglievano trasformando il carbonato di calcio in idrossido di calcio.
Dopo questo veniva estratto e buttato in vasche di acqua dove entrava in ebollizione trasformandosi in una massa saponosa. Questo lavoro non era esente da rischi perché ci potevano essere degli schizzi di calce viva che comportavano ustioni e se interessavano gli occhi potevano portare alla cecità.
Abbandonato questo monumento ai lavori faticosissimi di un tempo, più giù ma non troppo distante in mezzo al verde dei prati sorge la bianca sagoma del recentemente restaurato monastero basiliano di San Pantaleo venuto dall’oriente bizantino per sfuggire alla furia iconoclasta del 726.
Visto il cenobio siamo risaliti per una ripida strada mozzafiato nel senso letterale del termine, comunque unica asperità rilevante della giornata, e siamo pervenuti a una straordinaria parete rocciosa costellata di conchiglie marine bioclastiche che si trovano nello stesso stato in cui erano un milione di anni fa non avendo ancora iniziato il processo di fossilizzazione.
Il tutto è costituito di antiche spiagge che nel corso di centinaia di millenni si sono sedimentate e cementate fra di loro a più strati conservandosi nel loro aspetto originario.
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