TRADIZIONI
Se lo tiri, si allunga e diventa dorato: qual è il dolce dell'Immacolata "ru ziu ru zuccaru"
Su una lastra in marmo versava il liquido ambrato riscaldato in un pentolone e, dopo essersi specchiato nel suo riflesso, con una spatola ne spingeva le estremità
"Zuccaro" dolce siracusano (Foto di Michele Buonuomo responsabile di Siracusa nel Mondo)
Un dolce a base di miele e zucchero, ante anni ‘50, tipico della festa dell'Immacolata l’8 dicembre e immancabile anche il 13 dicembre, durante la celebrazione della Santa patrona, Lucia.
I luoghi dove "tentare" con lo zuccaro erano strategici e scelti accuratamente: la Chiesa dell'Immacolata e quella di San Filippo a Ortigia e la Basilica di Santa Lucia al Sepolcro, nell'omonimo quartiere.
Dopo la messa, infatti, i cristiani andavano a caccia del suo piccolo stand, riconoscibile da un gancio simile a quello delle macellerie. A questo punto, avvolti da una nube di caldarroste o mandorle tostate si assisteva, quasi sotto incantesimo, alla lavorazione a caldo di questo dolce per cui il tempismo e le basse temperature erano tutto sia per la riuscita, che per la tipica consistenza solida.
Poi, c’era il momento della lavorazione a mano, quasi fosse una pasta lievitata.
Allunga e tira, tira e allunga i lembi ed ecco che dall'ambra il colore prendeva le sfumature dell’oro. Le mani di amianto, dunque, lasciavano il posto al gancio, presidio per quella miscela sempre più consistente. A mo' di elastico appeso, iniziavano i giri su se stesso e il mastro, quasi fosse davanti a una fatica del mitico Ercole, non si dava mai per vinto.
C’erano solo lui, il gancio e quel composto elastico di zucchero e miele da girare, intrecciare e modellare. E se proprio le forze non lo accompagnavano, arrivava un altro mastro fidato che conosceva i punti deboli di quel "nemico" zuccheroso. Il giro completo avveniva, mentre gli astanti osservavano con ammirazione cotanta forza e goduria.
Un round uno contro uno incitato da un "Tira ca allonga" di alcuni patiti tra folla.
Il profumo, nel frattempo, inebriava i sensi e l'acquolina si palesava sulle labbra di grandi e piccoli fino a quando, dopo tanta resistenza, ecco la vittoria: una colonna di avorio luminoso. L'esclamazione "Wow", troppo semplicistica per tale magnificenza, lasciava spazio a "E cchi è oru?!" e poco dopo a un invito all'azione: "Tagghiamu!".
Tornato al bancone in marmo, il mastro separava dal composto delle piccole porzioni che, arrotolate, diventavano una treccia da gustare muniti di salivazione abbondante.
Un pezzo di quel dolce, la cui bontà era tale da delegare pure l’acquisto ad amici e parenti, che oggi non si trova facilmente, se non più. Ma checchè se ne dicesse, specie sulle norme igieniche, valeva sempre l'attesa.
E una volta gustato, di esso rimaneva solo una velina trasparente e appiccicosa, memore di quell’essere favoloso e la leggendaria fatica che si aspettava con ansia ogni anno.
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