PERSONAGGI
Se la pioggia a Palermo sono lacrime per Totò: la parabola di un eroe (immortale)
L’inizio e la fine d’una favola tutta nostra, l’alfa e l’omega dell’epico eroe di notti che furono magiche per l’Italia intera e folli per una città intera. Lo ricordiamo così
Totò Schillaci
La città che gli diede i natali che gli donò il sole, facendolo brillare come il più prezioso dei diamanti cresciuto nel più complesso tra i quartieri, che lo conobbe picciriddu.
Lo ha visto crescere tra le gomme che riparava e le porte dell’Amat che spaccava, lo ha visto andar via con una valigia di cartone e tornare sul carro del trionfo.
La città che per lui ha pianto di gioia e che per lui piange ancora, versa lacrime funeste mescolandole alla pioggia di uno strambo settembre. Strambo, come la notizia della morte di un immortale, come la gente che sta in fila al Barbera nonostante i riflettori spenti e gli spalti vuoti, come le esequie solenni per un figlio di Palermo nato e cresciuto al Cep e pianto in Cattedrale.
Via Barisano da Trani, via Paladini, via Besio … tante strade, tutte uguali, tutte buone se c’era da giocare a pallone: quattro balatoni per pali (mai abbastanza simmetrici), la traversa calcolata a occhio (dipendeva anche dall’altezza del portiere), la selezione cantilenante delle squadre ("i mia, i mia… i miiia") e interminabili partite, interrotte da qualche auto che passava di là, inconsapevole testimone di un ragazzino che poi, nel 1990, avrebbe conquistato il mondo.
Era il 1990 e Totò disegnò la sua parabola più alta, mentre Palermo scopriva quanto un sogno effimero abbia avuto la forza d’inghiottire decenni d’incubo. Erano gli anni Novanta.
Anni di opulenza e putie sempre piene, di mafia radicata e coscienze ancora dormienti. Gli anni delle estati nei villini che si riempivano a giugno e lunghissime villeggiature che svuotavano le sacchette. Di tronchetti-gelato al Johnnie Walker e di Autisti al Pinguino.
Anni ruggenti come i cinquantini su cui s’andava in due e senza casco, fumosi come le stigghiola del Dottor Zhivago (al Michelangelo), monotoni come le ore al Sirio, più svogliati d’un Winchester al polso del finulicchio figlio di papà, spensierati come i paninari che si vestivano da Bla Bla e snobbavano i meno abbienti, i quali riparavano da Mister Fantasy o da Smile.
Sì, perché era il 1990, ma era la stessa provincialotta Palermo di sempre.
Erano due città in una, due facce della stessa moneta da cinquecento lire, che nelle tasche di qualcuno non avevano padrone, ma nelle tasche di qualcun altro facevano la differenza.
Era la città della differenza, quella differenza strisciante, che generava olezzo nel naso dei notabili e vittimismo sdegnato tra le labbra pronunciate di femmine sguaiate e le mani callose di masculi gesticolanti.
Era il modo di fare della "Palermo bene" che si contrapponeva al modo d’essere delle periferie; era il distinguo di un finto lord da un presunto lordo, una O troppo chiusa che faceva a pugni con una "A" troppo aperta, l’eterna gara tra una jeep Vitara e una Golf nera di seconda mano.
Un cornetto vuoto anziché l’iris fritta, la tribuna che snobbava le curve, il sobrio che schifava il tascio, la musica jazz che storceva la bocca ai woofer della Golf di prima.
Era una linea di demarcazione, netta, tra il popolino delle borgate e la borghesia salottiera, mentre i porocchi arrinisciuti su quella stessa linea giocavano a fare gli equilibristi.
Eppure, in quel 1990 dal Cep giunse il più inaspettato dei Masaniello del pallone e, almeno per un po’, tutto cambiò, tutto si azzeró. Eravamo tutti Schillaci. Palermo era Palermo, era la città di Totò, che maltrattava la sintassi e schiaffeggiava le discriminazioni, che faceva gol al mondo e ci faceva letteralmente impazzire di gioia.
Che ha insegnato a sognare ad una intera generazione di palermitani. Ci ha insegnato che poteva esserci luce oltre il buio fitto di periferie abbandonate, oltre quelle barracche, oltre quei palazzi in costruzione e quelli costruiti senza senso.
E c’ha insegnato che "Dio è grande … ", tanto da affidare a un ragazzo di borgata il riscatto, che un popolo intero era abituato a ricercare in aristocratici post moderni, malavitosi famigerati o lestofanti improvvisati.
In ogni suo gol c’era un bambino dei Danisinni che scacciava topi, "vecchie coi rosari" e urla di casa. In ogni suo scatto c’era lo scatto d’orgoglio d’un disoccupato di Passo di Rigano, che si rifugiava tra gli umidicci tavoli della "Casa Bianca" (la taverna del quartiere); in ogni pallone toccato da Totò c’era il Super Santos che sbatteva sul portone della chiesa Maria SS Mediatrice e su cui s’abbatteva la scure di don Paolo, il sagrestano ribattezzato "Ora u tagghiu"; in ogni suo sguardo spiritato c’era la felicità di Baldo, che "in caserma, grazie a Totò, ci rispettavano e ci volevano bene".
In ogni sua esultanza c’era tutta la musicalità delle bancarelle sulle ruote che sfiatavano Nino D’angelo a palla, mentre Alamia e Sperandeo musicavano il nostro Dna.
In ognuno di noi, calciofili e calciatori più o meno da strapazzo, c’era un pezzo di Totò, sia che giocassimo nella polverosa seconda categoria del Buon Pastore, sia che ci fossimo arresi al fallimento e solcassimo l’erba sintetica del "Mickey club", sia che non facessimo né l’una né l’altra cosa ma vivessimo ugualmente il calcio come seconda religione; nelle scorribande del dopo partita al Politeama c’era tutta la magia d’una giovinezza vissuta a mille a l’ora, anche se senza social e senza smartphone.
E sotto quel balcone di via Luigi Barba numero 4, a cui Mimmo Schillaci s’affacciava attipu Papa, c’era il Cep: le sue strade, i suoi respiri, le sue fatiche, le sue giornate, i suoi figli, i suoi nonni, il suo passato, le sue preghiere.
E per una volta, forse l’unica, quel quartiere, di cui Dio s’era finalmente ricordato, si mostrava al mondo intero con tutta la fierezza "sempliciona" del revanscismo popolano.
Tutta la fierezza d’un sole palermitano che non ha mai smesso di splendere. Quel sole sta lì, sul tetto dei palazzi in costruzione, sul campo di pallone, sulla pelle di noi palermitani.
Che ha bruciature sparse qua e là e segni ovunque, ma che è dura come le balate della Vucciria. Di quella stessa durezza che ha fatto di Toto San l’eroe di due mondi.
Ciao Totò. E scusaci con Dio, per quel lapino sfrontato che gironzolava declamando una folkloristica blasfemia. Sono certo che ci ha già perdonati, perché "Dio è grande … ma tu mancu cugghiunii".
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