ITINERARI E LUOGHI
Se ci entri fai un viaggio indietro nel tempo: cosa c'entra un principe indiano con Ballarò
La mescolanza di etnia, colori, suoni e profumi, i vari cibi e gli abiti così come le tante lingue parlate, danno ancora oggi la sensazione di viaggiare nel tempo
Il mercato di Ballarò - foto di Vincenzo Russo
entrando nel grande bazar ch'era il Vico o Borgo degli Amalfitani, o passeggiando per la via Marmorea del Cassero, avresti creduto trovarti piuttosto in una città di Oriente che in Occidente; piuttosto in uno scalo dell'Asia, ovvero in Costantinopoli, che in Sicilia e in Palermo».
Non si ha la contezza del luogo in cui ci si ritrova.
Passeggiare dentro un mercato storico della città è come entrare dentro una macchina del tempo, e tornare indietro fino al Medioevo.
Ricordava Rosario La Duca in un suo articolo del 1971 che «William Agnew, un americano che visitò Palermo all'inizio di questo secolo (primi '900) annotò nel suo diario di viaggio che "se il Corso e la via Maqueda ci richiamano a mente le vie di certe città della Spagna meridionale, vi sono delle stradette, le quali al viaggiatore che osservi, ricordano le vie di Tangeri, Algeri, ed altre città dell'Africa settentrionale».
La mescolanza delle etnie, dei colori, dei suoni, dei profumi; la differente tipologia e provenienza dei cibi, degli abiti; le diverse lingue parlate, danno ancora oggi la sensazione di viaggiare nel tempo.
Per la verità, fra i vari mercati storici di Palermo, uno su tutti mantiene questa autenticità e caratteristica: il mercato di Ballarò.
Solitamente si ritiene che la prima volta in cui venne citata la "contrata Ballarò" è in un documento del 9 giugno 1287, così hanno scritto tutti i maggiori storici della città, compreso Rosario La Duca, ma sono riuscito casualmente a trovare un documento in cui si retrodata la prima volta in cui viene citata.
Darò maggiori dettagli nel mio libro su Ballarò che uscirà ad aprile, per "La via dei librai".
Continua poi La Duca «in altro documento del 22 marzo 1327, oltre alla contrada, è espressamente citata la "platea pubblica de Ballarò", ossia il pubblico mercato», ma va retrodatata anche questa citazione per via di un altro documento.
Fisicamente il mercato di Ballarò appare come un budello di strade ripieno di botteghe che si estende senza soluzione di continuità da piazza Ballarò a via Dalmazio Birago, dove chiude la sua corsa il taglio di corso Tukory.
Il mercato ha diversi ingressi ma il più caratteristico è quello di via Maqueda passando sotto l'arco di Cutò, dal nome dei principi che possedevano il palazzo a fianco.
In quanto al nome di Ballarò nel corso dei secoli sono state fatte varie ipotesi.
Tommaso Fazello lo cita come Segeballarath come si ha da alcuni documenti, poi corrotto in Ballarò.
Il gentiluomo Di Giovanni nel XVII secolo scriveva «si dice Ballarò per una tabella che vi era in un pilastro con queste lettere: "Bell. Rom.", come a dire "Bella Romanorum" perché qui fu la gran giornata quando i palermitani e i romani ruppero Asdrubale [...] Onde il volgo, corrompendo il vero senso chiamò la piazza Ballarò».
Michele Amari invece asseriva che con il termine "Balarah" nei documenti dei re Normanni veniva indicato un villaggio nei pressi di Monreale e poiché alcuni contadini e commercianti provenienti da questo villaggio andavano a vendere i propri prodotti proprio dove è oggi il mercato, il sito prese il nome dal villaggio di loro provenienza.
Sempre l'Amari ipotizza che il nome possa avere un'origine indiana data la provenienza di alcuni prodotti da un villaggio indiano governato da un principe di nome appunto Balarah.
Ipotesi a parte, non si può fare a meno di notare che i contesti dei suq palermitani non abbiano nulla a che fare con l'Europa moderna ed antica e che sicuramente traggono origine dalla mescolanza di storie e culture estranee al continente europeo, eppure di esso fanno parte.
Che piaccia o no, tutto ciò è frutto anche di integrazioni, compresenze pacifiche incontratesi già mille anni fa e che ancora convivono tutto sommato pacificamente.
Le note stonate del mercato fanno riferimento a qualcosa di brutalmente moderno che non ha a che vedere con la sua origine e con il senso folkloristico della sua essenza.
Degrado e malaffare pullulano in ogni dove, anche nei mercati dove la confusione mimetizza i loschi intenti, i quali vengono sommersi dal vociare costante dei venditori, dalle nuvole di fumo delle braci, dai tendoni variopinti, dai colori scintillanti degli ortaggi e della frutta e forse redenti dalla meravigliosa cupola barocca della chiesa del Carmine Maggiore, oppure dall'inesistenza di un presidio anche solo formale dello Stato.
Meritevole però è la presenza delle associazioni e dei volontari che tutelano la vita di questo fantasmagorico palcoscenico teatrale, creano e danno lavoro, tutelano le caratteristiche migliori del luogo e fanno sì che ne vengano scoperte le bellezze monumentali.
Palermo è questa amici miei, prendere o lasciare, una città piena di sensi e controsensi, così come marciano i motorini che vanno avanti e indietro nelle strettissime vie del mercato sotto gli occhi increduli dei turisti che, se siamo fortunati, fanno spallucce, ridono e continuano il loro viaggio.
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