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Qui c'era di tutto, lui voleva solo olive: perché Platone non digeriva i piatti siciliani

Sembra strano ma è così: il "numero uno" dei filosofi non amava, anzi di più, criticava la nostra cucina. Ecco che cosa dell'Isola non gli è "andato giù"

Francesca Garofalo
Giornalista pubblicista e copywriter
  • 26 ottobre 2024

Platone nell'affresco "La Scuola di Atene" (Musei Vaticani)

Piatti elaborati che rapiscono gli occhi e appagano il gusto ancora dopo secoli: sono quelli della cucina siciliana. Da tempo portavoce del binomio sapore e sontuosità, e per questo amata, celebrata ed emulata in tutto il mondo. Eppure, quella di una zona dell’Isola proprio non “andava giù” a una personalità nota; non uno dei giudici di Masterchef, ma il filosofo greco Platone.

La cucina bistrattata era quella siracusana. Fra le più ricche e note del periodo greco tanto da avere un'espressione dedicata: «come un banchetto siracusano». Questo perché era riconosciuta come la migliore e secondo gli storici moderni è proprio nella città aretusea che nasce la prima scuola professionale di cucina.

Olio, intingoli, formaggi pregiati, pesci da scoglio (in particolare spatola) e uova di pavone, le portate immancabili e di questo ne è stato, appunto, testimone Platone durante la sua permanenza nella polis greca. Lui avrebbe apprezzato di gran lunga pasti frugali, ma in tavola arrivavano - adornati a puntino - cibi figli di una cucina che corrompe il palato.
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Di questa cucina “traviante” e degli usi e costumi dei siracusani, il filosofo parlerà anche nella sua opera "La Repubblica".

Sontuose ed evolute, dunque, le pietanze siracusane non solo fanno largo uso di condimenti, ma anche di pentole per la realizzazione invece di una brace spartana. Cosa difficile da digerire per Platone e in contrasto con lo stile di vita del tempo, in particolare dei soldati che partivano in guerra muniti solo di carne arrostita e pane.

Un colpo allo stomaco, dunque, agli antipodi di mente, anima e corpo sani grazie a un pasto semplice. Ma alla cucina elaborata si aggiunge anche un’altra pecca: il consumo. Due volte al giorno, invece di uno, e per questo sintomo di grande voracità dei siracusani.

Eppure, nella faccenda qualcosa non torna: Platone si è diretto di sua sponte a Siracusa. Possibile non sapesse di tali leccornie? O forse sapeva di non sapere pur sapendo?

Accusato di essere arrivato nella polis proprio per il cibo, lui stesso si difende dicendo che tutto il tempo della permanenza si è cibato di olive, presenti nella polis in grandi quantità. Sarà così? Nulla è certo, anche se ci piace immaginarlo ligio ai valori.

Ma Platone non era il solo a criticare la cucina siracusana, perché un’altra figura la mal tollerava: il poeta Archestrato di Gela.

Autore del poemetto Gastronomia, lui invece si scagliava contro i “crimini” che i siracusani compivano contro il cibo. Rei di non valorizzare il pesce che veniva cosparso di salse, aceto e salamoia; per non parlare delle coltri di formaggio che coprivano il sapore delicato.

Vogliamo parlare del bere? I siracusani bevevano così tanto vino da essere paragonati a delle rane (anfibi noti per trattenere un grande quantitativo di acqua).

Insomma pietanze martoriate e tutto troppo abbondante. Nel tempo qualcosa è cambiato, ma senza dubbio sarebbe interessante invitare oggi a pranzo o cena Platone e Archestrato di Gela e vedere la loro espressione alle portate durante Natale o Pasqua, magari offerte da una delle nostre nonne seguite da quel «Manci? Ti viru sciupatu - Mangi? Ti vedo sciupato».
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