MISTERI E LEGGENDE
Quante passiate (e abbili): il viceré dal cuore rosanero che realizzò i "Quattro Canti"
Giovanni Fernandez Paceco, marchese di Villena, diede il primo colpo, con martello d’argento, ad una delle case diroccate e abbattute per realizzare il Teatro del Sole
Un ritratto di Giovanni Fernandez Paceco, marchese di Villena
E visto che siamo gente da babbaluci per il Festino, ma soprattutto siamo masochisti perché ci piace farci male, vogliamo partire proprio da questi che si sono ammuccati l’escargot e s’annacano tutti domandandoci: ma chi era stu Villena? Giovanni Fernandez Paceco marchese di Villena (pigghialu!) questo è il nome per intero.
Arriva a Palermo il 7 dicembre del 1606 che pare qualcuno gli avesse detto che la notte della Madonna si usava fare le giocate a carte di quelle potenti e quindi se la fece di corsa. Purtroppo per lui, secondo fonti più attestate, cioè più attestate di me, e lo devo specificare perché sennò arriva il giorno che mi prendono “attestate”, è costretto a rimanere in nave fino al giorno 10 dello stesso mese.
Sveglia presto, colazione, risali in nave, cambia porto perché devi fare credere a tutti che il viceré arriva dal mare, sali a cavallo, passa da porta Felice, risalì tutto il Cassaro in modo trionfale fino alla Cattedrale, giura di fronte al protonotaro e al pretore e, finalmente, Palazzo Reale dove ti puoi andare a mettere i piedi ammollo.
“Ma chi fui pazzo!? Ma non mi potevo restare a casa della duchessa di Bivona?”: e qua non c’entra la storia, ma si tratta solo di umana comprensione di un uomo che, non solo la sveglia fantozziana, ma arriva in una Sicilia deplorata da una carestia che le persone si mangiavano magari i calli delle mani.
Regola numero uno: accattare il grano a qualunque prezzo pure dal settentrione. Regola numero due: accattare il grano pure dal settentrione a qualunque prezzo. Ma palermitani mani lunghe avevano, specie sotto le natale, e, quelli che sentivano più scaltri degli altri s’acchiappavano più pane di quello che gli spettava.
“Buono si”, pensò il viceré Villena a quel punto "Cretino picchì?", e il 14 di gennaio dell’anno appena entrato (1607) ordinò con un bando che ad ogni persona sarebbe toccato l’equivalente di sei grani (tra le monete più scatò, tipo i nostri centesimi), di pane al giorno che era la quantità necessaria per mangiare senza sbutriarsi.
E se la carestia, così come ci partiva l’avvocato di Johnny Stecchino, era “una terribbbile piaga, ma jè la natura... ma dove possiamo fare e non facciamo perché in buona sostanza putttroppo non è la natura ma l’uomo...”, nel nostro caso, l’altra piaga, quella dell’uomo, è nelle scannate che si facevano i palermitani con i messinesi perché il re Filippo II aveva accordato a Messina il privilegio di coniare moneta, che invece non era concesso a Palermo.
I palermitani dalla loro avevano convinto il viceré di fare un’altra zecca a Palermo con la scusa che la presenza di molti fiumi, e quindi mulini, avrebbe permesso ai macchinari di coniare moneta più velocemente; dall’altra parte i messinesi, che scemi non erano e avevano capito che era un tentativo di fargli le scarpe, fecero ricorso direttamente al re che bloccò la nuova monetazione.
Ora, ogni volta che mischinazzo di Villena si spostava da Palermo a Messina e da Messina a Palermo, per cercare di risolvere stu problema burocratico, si doveva portare appresso i giudici e, peggio di peggio, tutti gli archivi che per regola scritta
(rigorosissima) dovevano essere trasportati per forza via terra sulle schiene dei muli.
Ora, dato che Villena faceva più avanti e indietro di un rappresentante, siccome tutte cose si poteva accollare tranne che lo strombolone sotto il pico del sole per tutta quella strada, decise che tale sfacchinata non si poteva fare più, ma da quel momento in poi il trasporto sarebbe avvenuto via mare.
“Andate a chiamare di Feria!” Chi era il duca di Feria? Era una specie di Flavio Briatore del tempo che aveva una nave così grande, ma così grande, che da tutti i palermitani era conosciuta (e non sto scherzando) come l’arca di Noè. “Ma sicuri siamo qua sopra signor duca?” chiese Villena prima salire. “È inaffondabile. Dio stesso non potrebbe affondare questa nave”.
Teccà, mancia: la stessa risposta del Titanic... e infatti, manco a dirlo, ci fu una tempesta, la nave si andò a rompere le corna sugli scogli e tutti gli archivi finirono a mare, per non parlare di gioielli e documenti che attestavano le proprietà di molta gente che, per questo motivo, si consumò. Intanto la questione della zecca veniva mandata al “Consiglio d’Italia” (un organo collegiale per i regni spagnoli in Italia) che decideva che il diritto di coniare moneta sarebbe rimasto ai messinesi, ma che si
sarebbe potuta fare un’altra zecca a patto che fossero stati i messinesi a decidere in che città farla.
“Ma chi pigghita p’u culu è!”, giustamente i palermitani ebbero che dire perché i messinesi sta zecca l’avrebbero fatto pure sopra un pedalò ma a Palermo meno che mai. Villena in fondo in fondo aveva il sangue rosanero e dispiacque di questa decisione. Per farsi perdonare, dunque, pensò che quelle bellissime strade, Toledo e la Strada Nuova (cioè il Cassaro e via Maqueda”) sarebbero state immensamente più belle se nel punto in cui s’incontravano si fosse fatta una piazza con balconi, marmi, statue e fontane.
Il progetto ambizioso fu presentato al senato che lo promosse all’unanime con un colpo di “Minchia!” il 21 dicembre 1608, dopo una lunga giornata di feste e cerimonie Villena diede il primo colpo, con martello d’argento, ad una delle case diroccate che sarebbero dovute abbattersi per fare i nostri Quattro Canti.
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