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Quando "nto Piff Paff" ci finì pure padre Messina: storia di un modo di dire che risale al 1878

Di quei modi di dire usatissimi dai siciliani che spesso non si sa da dove arrivino. Ve lo diciamo noi, mettevi comodi, dobbiamo salire sulla Delorean di Ritorno al Futuro e farci una passeggiata nel passato

Gianluca Tantillo
Appassionato di etnografia e storia
  • 25 febbraio 2022

Pagina interna dell'edizione del Piff Paff del 1 settembre 1917

Due certezze aveva nonno nella vita: a) le cazziate di mia nonna ogni volta posteggiava e poi non trovava la macchina b) che il male del mondo fossero gli amministratori dei condomini. E così, ogni volta saliva nervoso dalla riunione di condominio, che per lui era come rivivere la guerra, si lascia andare nell’ormai leggendaria esternazione: «Te lo giuro vero su quanto amo la pasta al forno senza uovo, che questo c’è di mittillu nto Piff Paff! ». Già, ma cosa sarà questo Piff Paff? Per comprenderlo dobbiamo salire sulla Delorean di Ritorno al Futuro e farci una passeggiata nel passato.

È un anno particolare il 1878. Muore papa Pio IX, muore pure Vittorio Emanuele II, a New York viene effettuato per la prima volta il servizio a domicilio del latte in bottiglie di vetro, viene inventato il connettore Jack, il pasticcere Enrico Vigoni recupera l’antica ricetta della torta Paradiso facendola diventare famosa in tutto il mondo, nasce Iosif Stalin che forse proprio in paradiso non andrà.
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A Palermo, il 29 settembre, seduto in quel caffè io non pensavo a te, nasce il giornale irriverente Piff Paff. Costava 5 centesimi Piff Paff e portava scritto nella testata: “Si pubblica solo quando si stampa”. In realtà era un settimanale, e l’articolo di fondo del primo numero si concludeva con queste parole “…vogliamo chiamare pane il pane e vino il vino e porcherie le porcherie... noi combattiamo col frizzo, col sarcasmo, colla risata, col paradosso” (per farla breve non era poi così differente dal tg satirico “Striscia la Notizia”).

Il periodo post-gattopardiano a Palermo, come in tutta la Sicilia, è un periodo particolare e contraddittorio. All’ascesa dei Florio e al nascente stile Liberty firmato Basile, si contrappone una realtà opposta e fatiscente. Se da una parte nascono meravigliose ville nobiliari o grandiose opere (vedi Teatro Massimo), dall’altra ci sta una grandissima fetta di popolo che vive in catapecchie facendo a pugni con la fame e le malattie. L’obiettivo di Piff Paff è quello di fare denuncia.

Comincia così a sferrare colpi a destra e manca, perfino contro i piccoli baronati e il sistema di raccomandazioni che gira intorno alle accademie. Il giornale si esprime così: “Non c’è più bisogno di studiare all’università.

Anche non sapendo né leggere né scrivere gli studenti si possono munire di attestati fatti dai professori dietro versamenti, insistenze, preghiere e testimoni; per informazioni: via Candelai, Piddu”. Dopo un primo periodo di difficoltà, Piff Paff respira una ventata di freschezza, prendendo via via più notorietà, e nel 1910 cambia perfino la testata riportando la nuova immagine di due fioretti che si incrociano. Purtroppo però la storia diventa storia solo quando viene messa nero su bianco sui libri; mentre è viva, liquida e in continuo divenire, è molto meno intellegibile e chiara.

Questo forse sta alla base di una delle cadute di stile peggiori di Piff Paff che per un periodo neanche troppo breve si scaglia contro padre Messina. Per chi non lo ricordasse o per chi è troppo giovane, padre Giovanni Messina (anche conosciuto come il pazzo di Dio), era un sacerdote nato alla fine dell’800 non lontano da dove tempo dopo nasceranno anche Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ancora giovane gli viene affidata una di quelle borgate a rischio di cui parlavamo: “Sant’Erasmo”. Non certamente quella odierna delle belle passeggiate, degli aperitivi al tramonto e delle corsette mattutine; tutt’altro, Sant’Erasmo veniva addirittura chiamata “l’Africa di Palermo”.

È qui che con donazioni e fatica a sudor di sangue padre Messina riesce ad ottenere un edificio, volgarmente chiamato Astrachello, appartenente ai principi di Cutò, e su questo erigere la “Casa Lavoro e Preghiera”, ovvero un orfanotrofio. Picciuli non ne teneva padre Messina e i muratori di cui disponeva a costo di un tozzo di pane erano gente che al massimo aveva tirato su qualche muretto in campagna. Per questo motivo, almeno inizialmente, l’aspetto della struttura faceva realmente (come diciamo noi) piangere i cani. Vaglielo a spiegare ai palermitani, che in quella strada ci passeggiavano almeno dal 700’ che quell’ecomostro serviva a salvare gli orfanelli dalla strada.

Eh già, e forse manco colpa dei palermitani era, ma della natura che ha dotato quel tratto di uno degli scorci più belli che si possano immaginare: il mostro di cemento lo deturpava. E di questa idea era anche Piff Paff che non ci pensò due volte scatenare la propria potenza di fuoco contro padre Giovanni, attaccandolo su pettegolezzi e maldicenze che non avevano alcun fondo di verità: «Non vuole donne mature né zitellone né vedove né maritate. Vuole roba fresca e giovane: le acque che circondano lo stabilimento di P. Messina sono acque benedette e non possono ricevere nel loro seno delle impurità...»

Padre Messina senza battere ciglio rispose in questo modo: «Io faccio quello che faccio non per me ma per i miei orfanelli... ho costruito a furia di elemosine e non potevo mica prendermi il lusso di pagare un architetto»; non mancando neanche lui, spesso, di far sfoggio della sua raffinata ironia che da palermitano non gli mancava: «Lei come giornalista può scrivere tutte le fesserie che le passano sotto la coppola del cervello e... a proposito degli orfanelli, se ha un pò di giornali vecchi per le latrine, me li mandi».

Come se non bastasse, a calare il carico contro padre Messina, anche se spinti d’amor per la bellezza e buona fede, perché in tutti modi poteva definirsi l’edificio meno che bellissimo, ci pensarono anche l’architetto Ernesto Basile e lo Scrittore Luigi Natoli, cui però poi non mancò di riappacificare con padre Giovanni.

Con l’avvento del ventennio fascista di quel simpatico omazzone che teneva le mani sui fianchi e chiamava benevolmente tutti “italiani!”, la storia di Piff Paff comincia a farsi più sbiadita, come la storia di tutta l’editoria italiana d’altronde. Come quasi tutti i giornali dell’epoca spende, forse per mala considerazione, forse per obbligo, parole al miele, addirittura in filastrocca, nei confronti del regime: “putemu diri caspita!/ chi semu a primu postu/ pri meritu pricipiu/ d’un omu arditu e tostu”.

Nel 1934 Piff Paff chiuderà per sempre e quello che ne resterà saranno pallidi ricordi e qualche copia sparsa nelle biblioteche.
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