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Quando bevi "a cannulicchiu" o ti "iecchi un cato d'acqua": perché in Sicilia t'arruciasti

Nella nostra terra è l’atto di utilizzare robuste dosi di liquido, non necessariamente sola acqua, per inzuppare se stessi o terzi, consapevolmente o inconsapevolmente

Alessandro Panno
Appassionato di sicilianità
  • 24 gennaio 2025

Nei passati giorni di tuoni, fulmini e pioggia c’è stata l’ulteriore conferma, come se servisse, che basta una sbrizziata perché il traffico impazzisca, dando origine a fenomeni di isteria ed allallamento collettivo.

Questo nonostante ormai ci sia modo di sapere, con precisione quasi matematica, quando farà cattivo tempo, basta consultare le varie app o ascoltare un telegiornale, ma sinceramente io per primo debbo ammettere che, mio malgrado, 15 volte su 10 dimentico di consultare le previsioni.

Per dire che, pochi giorni fa, complice anche un leggero ritardo, mentre pioveva ho coperto correndo allafannato la distanza che separa il mio posto di lavoro dalla fermata della metro, esordendo così in stazione con una clamorosa scivolata sul marmo, e percorrendo il corridoio a velocità ipersonica.

Avete presente quando da picciriddi ci si lanciava da una punta del corridoio scivolando con lo scopo di arrivare dall’altra parte in piedi? Ecco, lo stesso, con la differenza, però, che non ho più 11 anni, ma in compenso un ginocchio tutto scricchiato. Insomma lo schifio dello schifio.
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Fortunatamente i numi mi sono stati benevoli ed ho arrestato la mia folle corsa contro un totem per i biglietti automatici, provocando un rumore che si sarà sentito fino al ministero dei trasporti a Roma, e fermandomi a pochi centimetri da un distinto signore che, essendo assorto nei suoi pensieri, si pigghiò uno scanto, apostrofandomi successivamente con un preoccupato «tutto bene? Si è fatto male?».

Cercando di fare il "simpatico" e arripigliarimi ho risposto, «si grazie… mi… vuol dire stavo per scivolare…» e lui si ho visto, piove a dirotto…», poi dopo un attimo di silenzio «non ci sono più le mezze stagioni».

Normalmente detesto le frasi fatte a tipo "si stava meglio quando si stava peggio" e cose simili, ma in quel caso debbo ammettere che la parafrasi era calzante, dato che mi ritrovavo abbracciato ad una biglietteria automatica arruciato come un pulcino.

Da un punto di vista prettamente zoologico un pulcino ha piume talmente leggere e rade che basta un quantitativo d’acqua davvero esiguo per inzupparlo e renderlo goffo ed impacciato, ma perché si dice arruciato?

Nella nostra terra, arruciare (o arrusciare) è l’atto di utilizzare robuste dosi di liquido, non necessariamente sola acqua, per inzuppare se stessi o terzi, consapevolmente o inconsapevolmente, per un fortuito incidente o mera attività ludica. Spiegazione esauriente? Forse, ma da noi ogni parola racchiude un mondo.

Arruciarsi vuol dire bagnarsi quando si beve a cannulicchiu, quando si lava la macchina, se per caso mettiamo un piede in una pozzanghera, se ci coglie un improvviso acquazzone, o magari, quando da nicareddi, ma onestamente anche da grandi, viene u' babbio e si gioca a eccarisi cati d’acqua.

Mettendo da parte ricordi di divertimenti più o meno infantili, arruciare (o arrusciare) ha delle origini non del tutto chiare dato che in Sicilia, avendo avuto sia francesi che spagnoli, non si sa, con precisione, se il termine derivi dall’angioino aroser o dal catalano arruixar, anche se in ogni caso entrambi indicano l’azione del bagnare, usare acqua.

Manco a farlo apposta, ai tempi delle genti antiche, in terra sicula, vi era l’arruciatore, che, ricordando l’ acqua che cade da un innaffiatoio, era una sorta di antenato della doccia alla "a mio cuggino" siculo!

Consisteva in un bummulu di terracotta con lateralmente, vicino l’ imboccatura, una serie di fori ed una cordicella appesa, quindi, infine appeso, ad un albero, possibilmente in pieno sole.

Tirando verso il basso la cordicella, l’acqua arrivava alla parte bucherellata, facendo così sgorgare l’acqua come fosse una sorta di doccia.

In questo modo il contadino stanco e spossato dal lavoro aveva modo di lavarsi all’ esterno, prima ancora di entrare in casa, evitandosi così i cornutiamenti della moglie che magari aveva appena finito di passare lo straccio.

Ricordo che mio nonno, nel cortile, aveva un marchingegno simile, nonostante la presenza di una regolare doccia esterna, composto da un secchio di zinco bucherellato che utilizzava per sciacquarsi dal sudore o lavarsi le mani, e che lui chiamava abitualmente proprio arruciaturi.

D’altronde, restando in tema "campagnolo", per arruciata si intendeva anche l’ irrigazione sulle coltivazioni del solfato di rame, ottenuto, anticamente, facendo bollire pezzi di rame vari con acqua salata e carbone, ottenendo così una mistura che era utile come antiparassitario per le piante ed aveva un effetto antimicotico e antibatterico su ustioni e ferite.

Ma che succede quando una semplice arruciata si trasforma in una specie di getto a tipo idrante?

A quel punto si passa da arruciato ad ammargiato, che indica uno stato in cui si totalmente intrisi d’acqua, zuppi, come se si fosse caduti in unn pozza d’acqua, da non confondersi con la gebbia, che in passato veniva definita margia, termine che con tutta probabilità deve le sue origini al francese antico marais, che significa palude o acquitrino, che veniva spesso usato associato ad aroser, proprio per indicare dell’"acqua abbondante come una palude", come se volessimo dire "m’arruciavu ca paro ammargiato".
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