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Poeta, ballerino, autista dei Rolling Stones: il ritratto del visionario palermitano Girolamo

Fra verità e fantasia, Girolamo Amico racconta la sua vita fatta d'eccessi, fra viaggi in giro per il mondo e incontri illustri con personaggi della musica degli anni Sessanta

  • 13 gennaio 2020

Gli appunti di Girolamo Amico

Da qualche tempo accarezzavo l'idea di raccontare la vita di Girolamo Amico, un signore che conobbi qualche anno fa in un bar del centro storico. In quel primo incontro mi si presentò minuto e dal tono di voce pacato, portava con sé dei fogli fotocopiati, la cui intestazione era "Mercati storici di Palermo + 8 marzo" by Amico Girolamo poeta on the road.

Sotto c'erano tre poesie scritte a mano, in dialetto, con rima baciata. Non distribuiva le fotocopie a caso, ma solo a chi secondo lui le meritasse. Da quella volta c'incontrammo quasi ogni sera, tranne il venerdì, giorno in cui andava a ballare il rock e roll, non si sa bene dove.

Ben presto capii che l'impresa di raccontare la sua storia non sarebbe stata affatto semplice, per almeno due motivi: la quantità di cose che Girolamo diceva di aver vissuto e, soprattutto, la loro variabilità. Quindi i fatti non devono esser presi come tali, ma per quello che sono: discussi ri tavienna.
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Girolamo Amico da ragazzino viveva in via dei Casseri, alla Vucciria, difronte la casa di Franco Franchi; fece le elementari e le medie in collegio dai padri vocazionisti: la mattina preghiere, dettati e tabelline, il resto della giornata con i suoi amici a giocare a calcio. Indossare la casacca rosanero e giocare allo stadio della Favorita era il suo sogno.

Il provino nella squadra della sua città andò «a bomba»: quel ragazzo, così minuto, sembrava nato per stare con un pallone tra i piedi e che null'altro avrebbe potuto fare per il resto dei suoi giorni. Ma non era così. Se gli avversarsi in campo non riuscirono a fermarlo, lo fecero le visite mediche: un soffio al cuore bloccò sul nascere la sua carriera.

Era il 1967 e finita la scuola Girolamo Amico a diciotto anni si trasferì da uno zio a Roma. Dopo meno di un mese partì di nuovo. La scelta della nuova destinazione fu dettata, più che da un ragionamento sensato, da un impulso: Parigi.

Circa mille e cinquecento chilometri che avrebbe percorso in autostop. Al suo arrivo, fu attratto da una scritta: self-service, una delle poche parole che conosceva. Quando entrò e si mise in fila vassoio in mano, notò che i piatti pronti erano tutti freddi, e lui aveva bisogno di riscaldarsi. Si sedette in attesa del cameriere, il quale appena ebbe modo di squadrarlo glielo lesse in faccia.

«Spaghetti Italy?». La pasta era scotta e il sugo crudo, il risultato era una paccottiglia immangiabile.

«Questa è buona per attaccare la carta al muro» disse prima al cameriere e dopo alla padrona del locale. Alla chiusura rimasero in cucina Girolamo, la proprietaria e il cuoco. La prima regola, che sembrava essere sconosciuta allo chef, era buttare la pasta dopo che l'acqua bollisse.

Girolamo finì di preparare la pasta e la mangiò insieme agli altri. Alla fine della discussione aveva trovato dove dormire e un lavoro. Quando dovette tornare a Palermo per le feste di Natale, l'idillio si ruppe. Con l'anno nuovo i contatti con madame Brigitte cessarono.

Arrivò il '68 e Girolamo trovò lavoro in una fabbrica d'infissi a Brancaccio. In fabbrica si parlava di produttività e il lavoro era massacrante. Iniziò a partecipare alle assemblee, alle manifestazioni, a leggere Marx, Lenin, girava assieme a degli studenti che si definivano trotskisti. Tutti erano segnalati alle autorità, tranne lui: a Girolamo era sempre piaciuto vestire elegante e tanto era bastato a ingannare i servizi segreti.

Insieme ai compagni affittarono una casa all'Addaura. Era un via vai di gente, alcuni studiavano, altri non facevano nulla, nessuno aveva soldi per pagare l'affitto. Girolamo si sentiva oppresso da due lati: da uno i padroni e i turni in fabbrica, dall'altro i compagni parassiti e inconcludenti. Sarebbe partito di nuovo, andato in un posto lontano, non importava dove, doveva solo essere lontano. La nuova meta, casuale quanto la precedente, fu Toronto.

In Canada fece in tempo a vincere una gara di ballo, stupendo in finale la giuria con passi mai visti prima, per ripartire, subito dopo, con i soldi del premio, insieme a un amico. Trovarono un piccolo appartamento a Londra. Arrivò provvidenziale l'assunzione come cuciniere in uno dei più grossi club che frequentava.

A quel tempo Girolamo girava con una Armstrong Siddeley tipo Saloon, verde, un prototipo che non venne mai commercializzato, a quanto pare perché la Rolls Royce non voleva concorrenti. Da cuciniere divenne tuttofare, accoglieva i clienti e gli artisti che si esibivano. Una sera Anthony Joseph Sciacca, meglio noto come Tony Scott, gli chiese se avesse contatti a Palermo per un'esibizione.

Girolamo chiamò Ignazio Garsia, che aveva appena fondato il Brass, la scuola di jazz palermitana, per prendere accordi. Dopo la telefonata si esibirono in Sicilia Charles Oliver, Monty Alexander, Giorgio Gaslini e Lou Bennett, che arrivò a Palermo con il pianoforte smontato nel bagagliaio della sua Citroen station wagon.

Una sera un po' prima della chiusura, i proprietari fecero chiamare Girolamo. Il locale era vuoto, tranne per un tavolo, dove stava seduta una decina di persone. Gli chiesero di ballare e lui lo fece. Sembrava che non avesse fatto altro in vita sua, e nient'altro avrebbe mai potuto fare, ma non era così. Quando ebbe finito, i signori seduti al tavolo applaudirono, si alzarono in piedi, tutti.

La formazione intera dei Rolling Stones, batteva le mani, fischiava e urlava a quel ragazzo basso e magro magro che aveva ballato come un indemoniato. Il giorno successivo e per un'intera settimana Girolamo Amico fu l'autista personale di uno dei gruppi più famosi di tutti i tempi. Dalla partenza del gruppo all'arrivo di Tom Waits passarono tre settimane e la storia si ripeté.

Se al signor Girolamo Amico si chiedeva come mai, dopo aver vissuto una vita tanto intensa, si trovi lì, a girare tra le taverne del centro storico di Palermo, e a regalare i suoi versi in cambio di qualche spicciolo, lui sottovoce e con il tono pacato che da sempre lo aveva contraddistinto, rispondeva: «Una volta uno ha scritto: "Come si dice: nevica, piove si potrebbe dire: si pensa, s'immagina, si sente, senza che ci sia necessariamente un soggetto dietro tali verbi", ecco allo stesso modo si vive».
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