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Per tutte le volte che hai detto "Botta ri sale": come nasce il modo di dire siciliano

Il sale, in Sicilia, ha dato da lavoro, è servito per scongiurare il malocchio ed è diventato pure un modo di dire tipico del nostro dialetto. E noi vi sveliamo qual è la sua origine

Gianluca Tantillo
Appassionato di etnografia e storia
  • 14 dicembre 2020

Chi non ha mai sentito l’espressione botta ri sale? Da che mondo è mondo l’uomo ha sempre avuto un rapporto di dipendenza dal sale che risale dai tempi della preistoria.

Per esempio, anni fa grazie ad una borsa di studio mi trasferii per un periodo a Cambridge, in Inghilterra. Poi, giunto luglio, le belle giornate, e i saldi, la famiglia mi fece una sorpresa e mi venne a trovare portandosi appresso pure mio nonno. E un giorno, proprio durante questo periodo, in cui le vetrine erano tempestate di targhette con scritto “sale" (è questa la parola anglosassone che sta per sconto), e io mi trovavo a passeggio con il mio capostipite, all’improvviso arrivò la chiamata dal continente (Italia).

Era mia nonna che finalmente aveva rintracciato il disgraziato di mio nonno che da quando era partito s’era dato alla bella vita e non si era fatto più sentire: “Pino” (questa è mia nonna) “perciò, com’è sta Inghilterra?”. “Mah,” (questo è mio nonno) “piove sempre e vendono sale na tutti i negozi!”.
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Bene di prima necessità e di antichissima tradizione, il sale, arriva fino a noi rimanendo pressoché inalterato nella sua importanza e moltiplicando i suoi usi. E questa cosa la diceva pure l'uomo del sale, l’ambulante, quello di “quando mi cercate non mi trovate” che, quando voleva proprio mettere i puntini sulle “i”, non dimenticava mai di precisare che “prima ri l’ogghiu ci vuoli u sali”, cioè ne rimarcava l’importanza antecedendolo perfino all’olio.

Che poi, l’uomo del sale, l’ombrellaio, l’arrotino, e “aggiustiamo cucine a gas” (questo non si è mai dato un nome d’arte), non si è capito mai se erano tutti una famiglia o se piuttosto era sorta di lega/corporazione tipo Avangers per i supereroi.

Comunque, ha dato da mangiare, ha dato lavoro, è servito per scongiurare il malocchio, è stato pure in discoteca (vedi il tormentone “sale sale e non fa male”) - forse non è proprio l’esempio più calzante - e in Sicilia, ovviamente, è finito per diventare pure un modo di dire (botta ri sale appunto) che indica: stupore, spavento e, nei casi più estremi, viene anche usato come mandata a quel paese: “botta ri sale a tia”.

Ma qual è l’origine di questo modo dire? A parte il nostrano Giuseppe Pitrè (santo subito!) che ha dedicato l’intera vita allo studio delle nostre tradizioni svelando numerose zone d’ombra, la scienza ufficiale (ufficiosa forse) che si occupata della materia, tutto ha rintracciato tranne l’origine di questo modo dire che, fino ad oggi, si è spiegato per supposizioni e sommi capi.

Una delle tesi più accreditate è quella legata alla raccolta di sale nelle miniere di salgemma. Tre miniere ci sono in Sicilia, quelle di Realmonte e Racalmuto (in provincia di Agrigento) e quella Petralia Soprana (provincia di Palermo). Ecco, a tal proposito, si racconta che durante il turno di lavoro, faticoso ed estenuante, proprio i minatori, quando capitava che sbattevano lo strombolone (la testa) nelle dure pareti saline, erano soliti esclamare "botta di sale!".

Bella questa versione, quasi romantica, ma è vera? Questo non lo possiamo sapere. Tuttavia, e questo è solo mio parere, da siciliano posso affermare che, considerando il tenore di vita dei minatori, l’orario in cui si svegliavano, la fatica che facevano, e quanto guadagnavano, laddove qualcuno avesse sbattuto lo strombolone, sarebbe stato più facile sentirgli nominare tutti i santi in ordine alfabetico, piuttosto che sentirgli esclamare l’espressione “botta ri sale!”.

Se proprio volessimo fare un’analisi di altro tipo, tanto perché abbiamo due minuti da perdere, dovremmo considerare che, specie nel Medioevo e nel Rinascimento (periodi in cui assembramenti e tavolate - vedi i banchetti - erano quasi disciplina olimpica), la cucina ha cominciato a orientarsi verso le associazioni: dolce uguale ricco - salato uguale povero.

E per rinforzare tale tesi potremmo benissimo prendere in esempio il fatto che, giusto a Palermo, c’è un quartiere che prende il nome da questo rapporto cibo-ricchezza: il quartiere di Falsomiele.

Anticamente, infatti, questa zona era piena di appezzamenti di cannamele (canne da zucchero) dalla quale, attraverso una lavorazione, si estraeva una sostanza simil miele che prendeva il nome di “falso miele” (ovvero miele dei poveri, perché il miele quello vero era cosa per persone con i picciuli).

Altro che il caffè essiccato nella pasta di Cracco, altro che la provola nella triglia di Cannavacciuolo, se andaste a controllare un qualche menù del tempo (in rete si trovano) vi rendereste conto dell’uso smodato che si faceva di zucchero e miele addirittura nelle portate principali e negli arrosti.

Questo significa che:
a) ci deve deve essere stata un’epidemia di diabete e non ce ne siamo accorti.
b) volendo ben pensare quello King Kong in “Mery per sempre” ai tempi sarebbe già stato un sorriso smagliante.

Per contrapposizione, se i ricchi mangiavano zucchero, i poveri mangiavano sale (vedi anche l’espressione “manciarsi l’ossa cu sali” cioè mangiarsi le ossa con il sale, che indica proprio povertà o essere rimasti senza niente).

Il sale a tal proposito serviva al posto del nostro frigorifero per conservare le vivande. E se i ricchi si potevano permettere di mangiare la selvaggina appena cacciata, i poveri mangiavano carne essiccata e, forse forse, quando finiva rimanevano solo e soltanto le “ossa cu sali”.

Provate ad immaginare di un marinaio in navigazione a cui dopo giorni di mare, vento, salsedine, viene servito per pranzo una porzione di carne secca sotto sale. Siete lì, belli come il sole, state sbummichiando dalla fame, e cafuddate un morso per tutte le ruote.

Cosa mai potreste mai esclamare? Facile: n’chià botta ri sali!
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