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Palermo è l'architettura contemporanea come "valore": Gianni Pirrone, maestro dimenticato

È bene puntualizzare la necessaria differenza di sostanza tra “edilizia” costruita per motivi di opportunità, guadagno, talvolta speculazione, e "Architettura ragionata"

  • 25 gennaio 2022

Il palazzo realizzato da Giovanni Pirrone in via La mMarmora a Palermo

Svilita troppo spesso da una narrazione parziale e artificiosa, l'idea di architettura contemporanea mediamente intesa, soprattutto in una città come Palermo palesemente imbarbarita da anni di assenza delle istituzioni inerenti il campo della pianificazione, rischia di continuare a virare verso il nodo di un pregiudizio insanabile tra cittadini (che abitano gli spazi urbani), progettisti(che costruiscono gli spazi urbani) e critici (che raccontano la costruzione dello spazio urbano in accordo con la storia della città).

È bene dunque puntualizzare la necessaria differenza di sostanza tra “edilizia” costruita per motivi di opportunità, guadagno, talvolta speculazione, e “Architettura” costruita soltanto dopo ragionamenti rispetto al luogo in cui far sorgere l'edificio, tecniche e materiali, linguaggio e soprattutto nel solco di sperimentazione compositive in accordo con la storia dell'arte di cui la storia dell'architettura è ancora oggi componente essenziale, almeno in altre parti del mondo.
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Architettura ragionata e costruita da maestri, maestri come il purtroppo dimenticato Gianni Pirrone. Tra poco più di due anni, ne saranno passati venti dalla sua scomparsa ma sembrano almeno duecento. A risentirne particolarmente sono le sue architetture pubbliche; meno quelle private.

Mentre infatti la ringhiera metallica a corredo del “trafficatissimo” Ponte Corleone prosegue la sua disgregazione elemento dopo elemento, mentre la piscina Olimpionica nel cuore della “Palermo bene” continua a collezionare disagi e disservizi a fronte della totale mancanza di un restauro scientifico della componente “brutalista” della pelle di cemento armato, la scuola di via Michelangelo prosegue in forma di Suk la sua nuova vita abitativa nel totale disinteresse di tutte le istituzioni politiche che evidentemente non vedono e non riescono a tenere sotto controllo il nostro territorio.

Altra storia, fortunatamente, è riservata alle architetture “pirroniane” private disseminate in città e dotate di quella rara “personalità” che ne denota la piena appartenenza alla dimensione tettonica della grande Architettura.

Le incontriamo ogni giorno quasi senza saperlo; accade nelle vie Principe di Belmonte (1957), Tommaso Gargallo (1961), Gaetano Daita (1963), Leonardo da Vinci (1965), piazza Unità d'Italia (1972), e in via La Marmora dove nel 1968 Pirrone riconfigura insieme a Pippo Ferla la raffinata variante dell'edificio pluripiano per civile abitazione elegantemente risolta con sobrietà di linguaggio, attraverso giochi di ombre generate dalle partiture di porte e finestre e dai balconi piccoli e grandi letteralmente utilizzati come suggestivi generatori d’ombre. Un gigante Pirrone, capace di utilizzare codici assolutamente alla portata di chiunque risemantizzandone significati attraverso allineamenti solo apparentemente caotici costruendo vere e proprie gerarchie minimali di pieni e vuoti dinamici e brevi.

Qui a pochi metri dal caos della via Libertà, tra decine di episodi architettonici contemporanei interessanti e centinaia di casi di edilizia scialba e irrisolta, in questo contesto in cui l'architettura di Pirrone si fa “quinta” urbana inderogabile, in questi dieci piani con prevalenza di bianco e picchi di grigio e blu, si racconta del primato del progetto di architettura sul caos della bruttezza dilagante, della necessaria possibilità di costruire bellezza attraverso composizioni ragionate e capaci, e si parla del suo progettista, stranamente divorato da questo imbarazzante Alzheimer culturale ma comunque ancora partecipe della bellezza urbana, e pronto ad esser riscoperto attraverso la luce della conoscenza per divenire comune e preziosa testimonianza di consapevolezza.
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