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Nel cuore della Sicilia c'è un monastero: è a San Martino delle Scale (ma non a Palermo)

Qui è possibile chiudere gli occhi e ritornare indietro nel tempo e trovarsi di fronte a uomini che insieme lavoravano, studiavano e pregavano, quasi incessantemente

Erika Diliberto
Giornalista
  • 28 febbraio 2024

Il portone del monastero di San Martino a Milocca

C'è un posto in Sicilia dove si respira una storia diversa. Un posto dove non è difficile potere, ancora, ascoltare gli echi di rumori e vite passate. Un luogo, nel cuore dell'isola, dove è possibile chiudere gli occhi e ritornare indietro nel tempo e trovarsi di fronte a uomini che insieme lavoravano, studiavano e pregavano, quasi incessantemente.

Questo particolare angolo o se preferite, periferia della Sicilia è l'antico monastero-fattoria di San Martino delle Scale di Milena, nel nisseno e non di Palermo.

Si avete letto bene, di Milena. La fattoria-monastero, infatti, è appartenuta all'Ordine dei Padri Cassinensi, del prestigioso e rinomato Convento di San Martino delle Scale a Palermo.

Direte voi, inusuale, secondo le distanze geografiche e territoriali dell'epoca, eppure è così. L'antico feudo di Milocca vide come suo ultimo proprietario laico il barone Giacomo Capizzi.

Quest'ultimo, ad un certo punto della sua vita, desideroso di abbracciare la fede cattolica, si fece monaco e donò l'intero latifondo ai monaci benedettini dell’Abbazia di San Martino alle Scale di Palermo. Da allora e senza nulla togliere agli antichi fasti del passato, il territorio ha veduto e vissuto, con la presenza dei monaci, il suo periodo migliore.
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Quest'ultimi, infatti, svolsero un ruolo centrale nella vita economica e sociale del territorio milocchese, sino alla sua interruzione che avvenne nel 1866, anno della famosa soppressione e del conseguente scorporo dei beni ecclesiastici.

Nel 1700, su quel che rimaneva di una preesistente struttura, con tutta probabilità una torre di avvistamento ampiamente fortificata a controllo della Sicilia interna, i monaci benedettini diedero il via e posero la prima pietra per quella che sarebbe divenuta, a breve, un'imponente opera di edificazione, con un impianto riferibile al modello delle Masserie della Sicilia Occidentale, che organizzavano i vari ambienti attorno ad una corte regolare.

I padri diedero vita ad un nuovo edificio senza tralasciare il senso della fattoria e aggiunsero un mulino, il palmento ed un oleificio.

Il progetto fu affidato agli architetti Giuseppe Venanzio Marvuglia ed Ignazio Marabitti e altre maestranze intervennero nelle pitture. I due portali scolpiti della foresteria e della Chiesa furono opera del Marabutti, mentre il progetto in generale e la scala centrale appartengono al Marvuglia.

La complessa ed articolata struttura si apriva con una foresteria ed una piccola chiesa per il culto che insieme contribuivano a comporre il prospetto principale orientato a nord.

Entrando e superato l'arco di benvenuto, sormontato questo da un piccolo corpo che serviva come guardiola per l'importante controllo visivo, si raggiungeva una corte dalla forma regolare, caratterizzata per l'intero del suo lato lungo, da un ampio corpo che si stagliava più alto degli altri, dove al primo piano vi erano ubicate le celle dei monaci, ed un ufficio amministrativo.

Questo piano si raggiungeva tramite una scalinata monumentale quasi simmetrica; varcato un secondo passaggio coperto del tutto e simile al primo, si accedeva poi in un'altra corte dalle dimensioni più modeste della prima, a sinistra era presente una parete con un sistema di archi a tutto sesto, probabilmente una tipologia di stalle aperte, dove in poco tempo si sarebbero allineate una serie di abitazioni non più monumentali ma ad uso modesto come veri e propri nuclei abitativi.

Tutte le stanze dell'edificio religioso avevano un soffitto a crociera arricchito da stucchi ed erano arricchiti da quadri, anch'essi con delle cornici a stucco.

Ciò che fece da vero e proprio propulsore per l'attività del feudo, non fu il passato organigramma ma la cosiddetta formula dell'enfiteusi.

Con questa pratica, i monaci del convento, diedero in affitto ai contadini provenienti dei paesi limitrofi di Sutera, Campofranco ed in minima parte Grotte, Aragona e Racalmuto, la possibilità di pieno utilizzo e di coltivare modesti appezzamento di terra che erano sufficienti alla loro sussistenza.

In questa precisa fase, la presenza contadina in loco non era ancora del tutto stabile. Solo successivamente i contadini trasformarono i ricoveri ed i loro magazzini che avevano in loco, costruendovi sopra e trasformandoli così in vere e proprie case, per interi gruppi familiari, o parentali, dando di fatto vita alla costituzione delle Robbe raggruppate poi durante l'autonomia in quindici villaggi.

Villaggi o "Robbe" ancora oggi esistenti e per lo più ancora abitate. Inoltre i monaci nel 1722 avviarono inoltre le ricerche per trovare lo zolfo nel feudo "Cimicìa" che diedero puntualmente esito positivo.

Nel 1780, nacque così una fiorente miniera che dava lavoro a molti operai con un reddito consistente. Le terre continuarono ad essere concesse in affitto per il pascolo, mentre il monastero gestiva in proprio le terre seminate a grano o bonificate. Furono impianti degli oliveti e dei vigneti mentre nelle terre, che non erano adatte al miglioramento agrario, vennero impiantati dei boschi con piante tipiche del luogo.

Purtroppo dello splendore e della magnificenza di quel che era l'antico monastero-fattoria di San Martino, oggi non rimane che l'ombra di un passato ricco ed "eccellente".

Quella che fu a tutti gli effetti una saga contadina di tutto rispetto si è trasformata nel simbolo di uno spopolamento senza eguali. I discendenti ancora in vita che vi abitarono, lentamente cominciarono a sparire e della struttura, tenuta ancora miracolosamente vitale e funzionante, sino al primo periodo degli anni 50/60, oggi, non rimane che il degrado, l'abbandono e l'incuria del tempo. Allo stato attuale, al visitatore che volesse recarsi sul posto, si apre uno scenario da rimaner letteralmente pietrificati.

Del monumentale edificio, oggi non rimangono che poche mura, ancora stranamente in piedi. Il portale d'ingresso è ciò che ancora adesso sta ad indicare che quel luogo ha vissuto tempi decisamente migliori. Ma il trascorrere del tempo, l'incuria ed il degrado non sono stati gli unici fattori ad aver determinato un tale scempio.

Le diverse amministrazioni che negli anni si sono succedute, hanno, purtroppo, trattato con grande indifferenza un patrimonio di grande pregio e che doveva appartenere culturalmente e moralmente a tutti. E per concludere, la povertà del sistema costruttivo-edile dell'epoca, interamente costituito da pietra da gesso, ha fatto la sua parte.

Nonostante ciò che è stato e che non può esser cambiato, ancora molto può esser fatto per restituire quel che resta della storia, alla storia ed alle origini di un paese che lo scorso 30 dicembre ha festeggiato i suoi primi cento anni di autonomia. Milena ha ancora molto altro da scrivere del suo passato.
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