ARTE E ARCHITETTURA
Nasce a Napoli ma lo ammiri a Palermo: nelle Stanze del Genio "cammini" sulla storia
Osservare questo pavimento, dunque, è come compiere un viaggio romantico in un passato bucolico da visitare in occasione del Festival delle Vie dei Tesori
Il pavimento dell'800 esposto nelle Stanze del Genio
Ad occuparsi della disquisizione storica e tematica sono state Maria Reginella e Roberta Civiletto, le quali hanno messo in luce le caratteristiche di ogni singolo mattone.
Il pavimento andrà ad impreziosire la collezione di un privato cittadino che recentemente lo ha acquistato, preservandolo da un futuro incerto.
Al momento non è dato sapere se in futuro sarà possibile ammirare questa opera d'arte, ma certamente il pavimento per tutto il periodo di ottobre potrà essere osservato, nel contesto de Le Vie dei tesori, proprio all'interno delle Stanze al Genio di via G. Garibaldi.
Volendo raccontare un po' di storia della maiolica napoletana si deve sapere che «La Manifattura reale, fondata nel 1740 a Capodimonte, fu voluta da Carlo di Borbone. Tuttavia, quando lo stesso Carlo divenne re di Spagna, fece trasferire la fabbrica a Madrid, distruggendo completamente le fornaci napoletane per non lasciarne memoria.
In questo contesto si mise di buona lena a perfezionare la manifattura delle maioliche il maestro ceramista Nicola Giustiniani, il quale «cominciò ad abbellirle con ornamenti di carminio, di azzurro e di ogni altro più delicato colore a smalto», divenendo ben presto uno dei più famosi produttori di ceramiche del XVIII e XIX secolo, tale che i modelli creati dalle fabbriche Giustiniani furono replicati dalle fabbriche minori napoletane e vietresi.
L'opera esposta nelle sale delle Stanze al Genio è davvero pregevole e risulta essere insolita già a partire dalle dimensioni delle piastrelle che la compongono. Dice a tal proposito Maria Reginella: «Questi mattoni sono detti "quadroni", perché di grandi dimensioni. Hanno infatti la misura del palmo napoletano che corrisponde a 26 cm, mentre solitamente i mattoni misuravano cm 19 o 21.
Con l'Unità d'Italia, nel Regno delle due Sicilie, venne introdotto il sistema decimale e per praticità si adottò la misura di cm 20x20 in modo da coprire un mq con 25 mattoni».
In molti quadroni sul retro è presente un ovale sul quale è scritto il nome del titolare della ditta Raffaele Marigliano, in altri quadroni sono riportate le iniziali D.V., una sigla non identificata.
Secondo quanto dice sempre Maria Reginella la realizzazione di questi mattoni è sicuramente avvenuta dopo il 1825, poiché da tale anno in poi si cominciò ad apporre il marchio di fabbrica a secco sul retro. Ogni singolo quadrone presenta una greca come cornice, al centro della quale si possono osservare i vari (e tutti diversi) soggetti monocromi dipinti in giallo senape che traggono spunto dai temi neoclassici cari al periodo della seconda metà del Settecento e la prima dell'Ottocento.
Il ceramista, certamente influenzato dalle maioliche delle fabbriche Giustiniani e dalle circolanti stampe francesi o inglesi del periodo, ebbe modo di emulare gli esempi più in voga del momento.
Si osservano perciò paesaggi boschivi, ruderi che ricordano i ritrovamenti archeologici di Pompei ed Ercolano, barche a vele spiegate, ceste di fiori, animali reali e mitologici, puttini che si divertono, figure orientaleggianti, alla moda già nel XVIII secolo, ma anche soggetti derivati dalla vita reale quali contadini, venditori, soldati, donne in abiti d'epoca intente a svolgere faccende domestiche o semplicemente a passeggio nella natura, o derivati dalla tradizione popolare come l'istrionico Pulcinella.
Interessante è poi l'attenzione che Roberta Civiletto dedica ai vestimenti dei soggetti ritratti dividendoli in tre macrocategorie: le uniformi, l'abito borghese e il costume popolare che traggono ispirazione sempre dal folklore napoletano.
La Civiletto ricorda che «A partire dal 1782, il re di Napoli Ferdinando IV di Borbone promosse un'intensa campagna di ricognizione "dal vero" nelle province del Regno.
Si trattava di una sorta di rilevamento etnografico che durò ben 15 anni, con il fine di conoscere le diverse "fogge di vestire" dei suoi sudditi ed arricchire il catalogo dei soggetti dipinti destinati poi a essere tradotti su porcellana nella Real Fabbrica di Capodimonte, o a stampa, con privativa reale, oppure traslati nella polimaterica manifattura di figure presepiali».
Così nel pavimento siamo in grado di riconoscere figure maschili in abito popolare che indossano tipici grembiuli, braghe larghe lasciate cadere oltre il ginocchio, giacche corte distintive del ceto sociale, ecc.
Le donne popolane indossano un bustino aderente ma non strozzato alla vita e gonna corta e arricciata ma non sorretta dalle impalcature interne come invece erano solite portarla le donne aristocratiche.
L'abito borghese maschile è caratterizzato dalla «marsina corta con alto collo montante, i lunghi pantaloni, in uso già a partire dalla fine del '700, il bastone da passeggio, accessorio irrinunciabile ed il copricapo a cilindro mentre la cravatta è talvolta sciolta dal collo e retta in mano. [...]
Dell'abito borghese degli inizi del secolo, si individua la veste di gusto neoclassico, ampia e morbida, a vita alta, tipica dello stile impero, definita robe en chamise in uso tra la fine del XVIII secolo e il primo quarto dell'Ottocento...».
Osservare questo pavimento, dunque, è come compiere un viaggio romantico in un passato bucolico, ovviamente edulcorato, lontano ad esempio dalle reali condizioni di miseria e di dolore del popolo napoletano o dalle costrizioni belliche imposte ai militari, ma pur sempre rappresentazione, sebbene solo in parte, di un quotidiano, di un vissuto del quale, se non fosse stato tramandato anche in questa misura, ne saremmo rimasti all'oscuro.
Dargli lustro invece è l'intenzione di Pio Mellina che per la verità, già diversi anni addietro, aveva acquistato un piccolo lotto dello stesso pavimento e lo tiene ben conservato tra le sue stanze.
"Sarebbe stato un peccato se avessero diviso in tanti piccoli lotti questo pavimento" dice, in effetti si sarebbe persa la sua monumentalità. E di monumentalità si dovrebbe parlare, poiché la maiolica dovrebbe essere preservata come un monumento, dacché essa si configura quale elemento caratterizzante di un popolo e, in questo caso, perfino di un Regno.
Fa bene, quindi, Pio Mellina, a porre l'attenzione sull'importanza della maiolica nella nostra città e a mostrare la sua delusione per l'esclusione di Palermo dall'elenco delle città italiane con "affermata tradizione ceramica" redatto dal MIMIT (Ministero delle imprese e del Made in Italy). Chissà che in un prossimo futuro la nostra assenza da quell'elenco non venga colmata.
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