ITINERARI E LUOGHI
Masserie, mulini e le 5 chiese: il tour nel paese "nicareddu" sui monti di Palermo
Osservando vicoli e palazzi ci accorgiamo che si tratta di un paesino rurale di origine recente rispetto ai borghi medievali. Un luogo da scoprire a passo lento
San Giuseppe Jato
Se il tempo ha logorato certi aspetti, i giovani volenterosi accettano la sfida. Quale? Rimanere nella Valle dello Jato e continuare i mestieri dei padri, nonni e bisnonni. Lasciato il territorio partinicese, o meglio ancora, provenienti dalla Palermo-Sciacca, arroccato su ripidi versanti dei Monti di Palermo sorge un paesino dalle proporzioni buffe.
Insieme a San Cipirello costituisce un (curioso) caso di doppia enclave comunale all’interno del territorio di Monreale. Una stradina lunga circa 1,2 km divide i due comuni palermitani. Il cartello d’ingresso è pura poesia, di una comunità orgogliosa delle origini e vicina ai curiosi che visitano il luogo.
Chi è il re? La regina? Il cavallo? Il gioco diventa interessante e rappresenta l’inizio di una visita “apparentemente calma”. Osserviamo edifici, strutture e palazzi, ci accorgiamo di essere in un posto giovane, molto rispetto ai cosiddetti borghi. San Giuseppe è paisi nicareddu.
Quel primo settembre del 1779 fu il “Dies Natalis”. I feudi che appartenevano al Collegio dei Gesuiti di Trapani vennero letteralmente scippati (da Federico III di Borbone) e grazie alla licentia populandi, nacque San Giuseppe dei Mortilli (nome del feudo). Il marchese di Sambuca Giuseppe Beccadelli acquistò i feudi e decise di costruire un piccolo villaggio.
Una chiesetta, un casale e tanti bandi per invitare la gente a popolare il nuovo comune. Nel giro di 50 anni contava ben 3200 abitanti. Splendore calpestato nel 1838 quando causa forti piogge, due terzi del paese franarono.
Una parte degli abitanti si spostò nella vicina contrada di Sancipirrello. Quest’ultimo divenne autonomo nel 1865, mentre San Giuseppe dei Mortilli cambiò denominazione in San Giuseppe Jato nel 1862 (o 1864).
“Chi ciavuru d’ogghiu e profumu di vinu bonu”. E così la storia jatina viene accantonata dal pranzetto a base di minestrone, lardu chinu e melanzane e quaglie. Riducono i buoni propositi. Il timore di lasciarsi coinvolgere dalle smisurate quantità e qualità (anche) dei dolcetti tipici è tanta.
Bignè e cassatelle non possono mancare. La visita è conclusa? No!
Siamo in corso d’opera e cinque chiese meritano le giuste attenzioni.
Partendo dal centralissimo Corso Umberto tutto prende forma con la Chiesa della Provvidenza (custodisce l’effigie della Madonna della Provvidenza). Anche la chiesa dedicata a San Nicolò di Bari (o Madre Santissimo Redentore) conserva opere di notevole interesse.
Quella delle Anime Sante ha un campanile con tre archi. Quella della Madonna del Carmelo era un tempo l’edificio religioso del cimitero, mentre quella di San Francesco da Paola conserva un altare monumentale (copia dell’altare in rococò della Chiesa di Santa Maria ad Altofonte).
Durante la passeggiata - nel corso principale - improvvisamente spunta “na stratuzza stritta”. È il vicolo Lo Manto. Misterioso, nasconde ”cose antiche”, da scoprire. Come le tante indicazioni turistiche: sono i percorsi da affrontare a piedi.
Grotte, bevai e masserie rappresentano aspetti particolari. I terreni fertili sono stati utilizzati per la coltivazione del grano. Meritano uno studio approfondito.
La più antica (masseria Jato) risale addirittura al 1182. Per non parlare della via dei Mulini, con i suoi nomi eleganti (Principe, Jato, Chiusa, Provvidenza e Quarto). Raccontano storie di sacrifici, purtroppo emarginati dal mondo contemporaneo.
Rischiano - causa abbandono - il crollo e la definitiva sparizione. È doveroso lasciarsi alle spalle il termine “noncuranza”, ormai di normale quotidianità.
In ultimo, non per importanza, è presente il Giardino della Memoria (il museo creato nel luogo in cui venne tenuto prigioniero il piccolo Giuseppe Di Matteo). Tutto volge al termine, forse.
San Giuseppe Jato spinge i curiosi per un altro giro, un’ultima passeggiata. La corsa non è finita. L’arma di seduzione si chiama silenzio.
La cadenza dei passi è lenta, godiamo degli ultimi istanti, stavolta abbiamo raggiunto l’uscita. Uno sguardo per non dimenticare il paesino delle stranezze.
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