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"The Libertine", il piacere nella perdizione

  • 27 febbraio 2006

The Libertine
Regno Unito, 2004
di Laurence Dunmore
con Johnny Depp, John Malkovich, Samantha Morton

Che cosa altro si può dire di lui se non che è l’attore più eclettico di Hollywood? La sua capacità di cambiare personaggio con straordinaria naturalezza, è quasi sconcertante. Un giorno è l’eccentrico proprietario di una fabbrica di cioccolato, il giorno dopo è lo scrittore che inventò Peter Pan, il giorno dopo ancora è un simpatico pirata alla ricerca di tesori perduti, quindi diventa un uomo depresso perseguitato da un maniaco omicida. Questo è Johnny Depp, ex promessa del cinema ed oggi attore completo e straordinario. Lo troviamo qui nei panni di John Wilmot, conte di Rochester, personaggio realmente esistito nel 1600, amico e confidente del re d’Inghilterra Carlo II. Rochester è un poeta, cortigiano e soprattutto un libertino, innamorato del teatro e sempre alla ricerca di nuove emozioni. Il suo linguaggio lascivo ed il suo modo di fare privo di freni inibitori lo porteranno a perdersi nei piaceri del sesso e dell’alcol, fino a condurlo alla rovina. Infatti, accecato dal suo stesso desiderio, non si tirerà mai indietro, anche a costo di crearsi dei nemici o di essere bandito dalla sua Londra. E di certo non saranno i cuori spezzati delle donne che ha conquistato a farlo tornare sui suoi passi. Quello che Johnny Depp interpreta è sicuramente un personaggio negativo, una specie di anti eroe che di buono ha ben poco. Emblematico è il suo monologo all’inizio ed alla fine del film, in cui prima ci anticipa che non ci piacerà affatto e che se in sala c’è qualche puritano, allora farebbe bene ad andarsene, per non restare scandalizzato dal suo stile di vita; poi conclude con un bel “Ve l’avevo detto” che però suona un po’ più amaro e beffardo.

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Ma quello che apparentemente può sembrare un personaggio vuoto e privo di contenuti si rivelerà alla fine molto più profondo della combriccola di amici che lo accompagnano nelle sue avventure mondane. Infatti ciò a cui aspira Rochester non è il piacere fine a se stesso ma qualcosa che va oltre, che soddisfi il suo desiderio di vita che non trova appagamento nel quotidiano. Quello che lui cerca è l’amore che proprio quando arriva crea tormento e porta alla perdizione totale. Come è facile intuire, tutto il film è incentrato sulla sua figura ed il resto dei personaggi fanno solo da contorno. Persino John Malkovich, che interpreta il re Carlo II, ha un ruolo marginale, secondario, quasi da spalla. E persino il delicato momento storico sembra essere di poco conto. A fare da contorno a tutta questa storia c’è una Londra nebulosa, sfocata, dispersiva e a tratti quasi lugubre. La famosa pioggia londinese non mancherà di certo di infangare le strade di campagna, rendendo più complicato il passaggio delle carrozze. E l’altrettanto famosa nebbia non si metterà di certo da parte, anzi sembra quasi diventare un elemento essenziale, per dipingere un’epoca in cui non si riusciva a guardare oltre se stessi, come se ogni persona fosse avvolta dalla sua personale nebbia. Il regista Laurence Dunmore, alla sua prima apparizione cinematografica, gioca molto su questo e fa largo uso di primi piani in rilievo su sfondi sfocati ed offuscati. Molto bello a tal proposito è un dialogo tra Rochester e la moglie, durante il quale chi parla ha un’immagine nitida e chi ascolta invece ha un’immagine sfocata. Il risultato finale è un film forte, di quelli che possono piacere o risultare particolarmente sgradevoli.

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