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“Tardara”: ambiente, anima e ricordi

  • 3 ottobre 2005

E′ l’ultimo libro, in ordine cronologico, di Licia Cardillo Di Prima (della stessa autrice: Il Giacobino della Sambuca , Editori Riuniti, 2000 - «Premio Anteka Erice»), giornalista pubblicista, nonché insegnante e anche "Signora del Vino", in quel di Sambuca di Sicilia (Agrigento), dove vive. Tardara (Editori Riuniti - pagg. 166, € 12,00) evoca un fascino misterioso, l’ambiente dove l’anima e i ricordi d’infanzia si fondono, e assumono sostanza, in un paesaggio che irretisce Gino Roveri – protagonista del romanzo – nel suo rientro forzato, per la morte del fraterno amico Renzino, nei luoghi d’origine e gioco. Non è però un decesso naturale. Il paesaggio di ieri e della spensieratezza si tinge di rosso, l’oggi della vita è un gioco piuttosto duro, una matassa da dipanare, nella piccola Rocca

Regina, luogo d’immaginazione dell’autrice, paesino sovrapponibile ai tanti borghi dell’entroterra isolano. La struttura del racconto è piuttosto semplice, scorrevole, si legge d’un fiato, quasi si beve; come sensazione di uno scrivere maturato tra le cantine della famiglia Di Prima, in mezzo ai Neri d’Avola, Sirah, Merlot, Insolia e Chardonnay. Le sensazioni olfattive, però, le luci e le ombre del racconto, non sono quelle dei filari né tanto meno dei vitigni, perché “Tardara”, che suscita nel protagonista «il senso dell’orrido e del sublime», è invece una cava, un territorio in cui si trova anche un antico baglio. Così la voce narrante ne fa descrizione: «Sembrava che la natura, in quel luogo, si divertisse a giocare con l’illusione e con l’ambiguità. La montagna, come tagliata da una mano capricciosa, seguiva un percorso tortuoso a ghirigori. La ferita si addentrava nel corpo della terra, profonda, sinuosa come un serpente, tra speroni sospesi l’uno sull’altro, come quinte di un teatro, che affioravano dall’abisso. “Tardara” era il nome della forra e doveva avere a che fare con tardare, sostare, indugiare. Con la magia del tempo, forse. La pietra ha un rapporto speciale con il tempo… circondati dalle pietre si avverte il respiro delle ere geologiche, e l’attimo vola come nell’era di Saturno»…”.

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Sembra una cartolina edulcorata, come tutti i luoghi descritti dall’autrice, specie per il forestiero ignaro del passato di questa Isola; luoghi in costante tensione, parte distrutti e parte recuperati, sempre aggrediti, messi in pericolo dall’avido uomo dedito a sovvertire le bellezze create dal caos primordiale. Sembrano edulcorate ma sono “cartoline vere”, spazi che vivono e respirano, che fanno riflettere, come nelle parole di un altro personaggio incontrato, Don Giuseppe, che descrive la Scala dei Turchi, scultorea costa del girgentano, a un Roveri in veste di figliuol prodigo. Dice il parroco: «Qui tutto è magia, illusione dei sensi, castello d’Atlante… Non è vera neanche la natura! Guarda la Scala dei Turchi… a volte hai l’impressione che, da un momento all’altro, debba prendere il largo… scomparire e lasciarti in un deserto pieno di buchi neri. L’artificio qui è una necessità, una protezione. Qui… tutto è apparenza… tutto teatro… tutto rappresentazione». Tornano così, in questa metafora intrisa di paesaggio e carattere, i temi della “sicilianità”, che Licia Cardillo Di Prima affronta a suo modo, in piccoli bozzetti, bagliori in un cielo osservato dai mille cannocchiali, dove ogni astronomo-scrittore ha dato una sua chiave interpretativa, una propria rotta di viaggio. Ritornano così gli echi dei manoscritti, passati e presenti, dei tanti pensatori, tra ulivi e mari, per un futuro fatto di chissà cosa, in una terra in cui tutto e cambiamento, sete di conquista in una sostanziale immobilità – quasi ad evocare ricordi gattopardeschi – ma anche impegno e denuncia – come nelle pagine di Sciascia o nei ritratti letterari della Sicilia di Consolo e Bufalino.

Una denuncia che sta proprio nelle parole, nella grafia di Renzino – il fraterno amico ritrovato, ma su un letto di morte – in una testimonianza di vita condivisa e commossa, che rimanda dagli occhi del personaggio principale a quelli del lettore; quest’ultimo a sfogliare pagine quasi fossero petali di margherita, per una risposta. E tra le righe che fanno muovere la ristretta comunità di Rocca Regina – pervasa da paure, reticenze, conflitti d’obbedienza e antichi codici – ecco la risposta: la speranza che primeggia nel coraggio della verità. Il riscatto possibile, ma a prezzo necessario di sangue. Gino Roveri è solo, quando riconosce la grafia di Renzino in un’agenda nascosta nel baglio della Tardara. Aprendo quelle pagine varca la soglia del dolore dell’amico, ritrova le immagini del bambino di giochi, guarda allo specchio l’uomo che ha sofferto per una condizione che sente non appartenergli – l’onorabilità del padre vissuta come marchio d’infamia – immagina lo sforzo, la solitudine, per affrancarsi da quella dura eredità che lo annullerà in un soffio. Tutto sembra compiuto, perduto, destino ineluttabile da cui è impossibile fuggire, ma siamo solo a pagina cinquantatre del nostro libro (l’inizio, quindi un terzo del cammino) il testamento di Renzino nelle parole di Feuerbach: «La parola fa l’uomo libero. Chi non si può esprimere è uno schiavo. Mute sono perciò la passione smodata, la gioia smodata, il dolore straziante. Parlare è un atto di libertà. La parola è per se stessa libertà». Poi a seguire una dedica «…poesia per Giuseppe Di Matteo, piccolo martire (di mafia, n.d.r.) ispirata da Il Tieste di Seneca al Teatro di Segesta. Quando le colpe dei padri ricadono sui figli. ANTREO NON E’ MORTO…..», inutile proseguire, meglio leggere le due pagine successive e lasciarle interiorizzare al lettore.

“Tardara” è una storia semplice, forse immaginata oppure vera, come solo le storie di Sicilia sanno essere nella crudezza d’ogni giorno. Una storia che si fa racconto, analisi, messaggio, per vigilare, riflettere, difendere la propria identità smussandone i difetti. Un libro, una narrazione, un semplice contributo per compiere un viaggio tra le dune dell’irrisolto enigma siciliano, per capire nel presente il nostro futuro cammino.

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