CINEMA E TV
“Ogni cosa è illuminata”, il comune tempo del ricordo
OGNI COSA E’ ILLUMINATA (Everything is illuminated)
U.S.A., 2005
Di: Liev Schreiber
Con: Elijah Wood, Eugene Hutz, Boris Leskin, Laryssa Lauret
Una serie di oggetti quotidiani apparentemente insignificanti, piccoli reperti di una comune vita familiare imbustati e poi appesi ad un muro come degli ex- voto: una catalogazione ossessiva, un culto della memoria che testimonia la volontà di combattere l’oblio da parte di Jonathan, il giovane protagonista di “Ogni cosa è illuminata”, sorprendente opera prima dell’attore ebreo-ucraino Liev Schreiber, presentata nella sezione “Orizzonti” al Festival di Venezia dell’anno scorso.
E’ evidente che la luce a cui il titolo allude è quella di un passato iridescente in grado di condizionare il presente (o persino il destino) dei personaggi di questa storia di affetti derivata dall’affascinante, omonimo romanzo di un altro esordiente, l’ebreo-americano Jonathan Safran Foer che si è divertito a comporre un ironico pastiche linguistico (dove convivono idiomi russi, americani, ucraini ed ebraici) divenuto un best-seller in mezzo mondo (e che non si tratti di una meteora editoriale lo conferma l’efficacia del suo secondo libro, “Molto forte, incredibilmente vicino”). Altrettanto evidente è il dato autobiografico che segna l’ispirazione sia del romanzo che del film con un gioco di rimandi addirittura trasparente, a cominciare dal nome del personaggio principale, Jonathan, che è lo stesso dello scrittore.
Più in là si scoprirà che Augustine salvò il nonno di Jonathan dall’internamento in un campo di sterminio e che il viaggio iniziatico è anche un’occasione di confronto con la causalità del destino.
Il merito principale di Schreiber regista (e autore della sceneggiatura) è di aver mantenuto intatto lo spirito ironico che anima il romanzo originario, con uno stile disincantato, da ballata “on the road”, che rimanda a certi cult anni settanta (da sottolineare l’apporto della travolgente ed evocativa colonna sonora di Paul Cantelon). Sulla rotta per la remota cittadina di Trachimbrod, una volta giunto ad Odessa, Jonathan s’imbatte in Alex, un dinoccolato ed esuberante cultore dei miti pop di marca americana (ad interpretarlo è la rivelazione Eugene Hutz, in patria famoso come solista della band Gogol Bordello, specializzata nella fusione di ritmi gipsy, punk e rock’n'roll).
A bordo di una Trabant azzurrina i due proseguono il viaggio, accompagnati dal nonno di Alex (che ha il volto segnatissimo di Boris Leskin), un immalinconito e dispotico sopravvissuto agli scombussolamenti della Santa Madre Russia che si finge cieco ma che è in grado di guidare l’automobile, e da una deliziosa cagnetta in t-shirt chiamata Sammy Davis junior-junior. Per questo strampalato gruppo la meta è costituita da una serie di piccole rivelazioni, capaci di mutare la prospettiva sia delle attese che dei rimpianti: per i due giovani la svolta funziona come un traumatico apprendistato mentre per l’anziano reduce è la dolorosa presa di coscienza rispetto ad un passato rimosso in nome di una ingiusta pregiudiziale antisemita.
Il percorso d’illuminazioni prevede una serie di tappe assai godibili, scandite dal delinearsi di scenette surreali, ricche di annotazioni ironiche (particolarmente divertente è il tormentone delle Marlboro offerte ripetutamente in cambio d’informazioni) accanto ad una galleria di personaggi indigeni raccontati con un gusto che rimanda ai più gustosi esempi di letteratura yiddish, affiora la descrizione dei rapporti conflittuali tra i protagonisti, risolta con l’ausilio di un satirico gioco linguistico (il nome Jonathan viene storpiato in Jonfen) e fortemente allusiva rispetto ai diversi punti di vista con i quali generazioni diverse si confrontano con il peso, spesso intollerabile, della Storia.
I riferimenti che rivangano la vergogna della Shoah e dei pogrom s’innestano abilmente nel tessuto di un film che, con nonchalance dichiarata, s’interstardisce a ribadire come non sia facile la pacificazione dei popoli (e, di conseguenza, quella psicologica individuale) quando questi sono segnati dai traumi collettivi derivati dallo scambio tra civiltà, in nome di principi ideologici aberranti incentrati sul disprezzo dell’umana convivenza. Così la necessità privata di un viaggio a ritroso nel tempo può trasformarsi in un ammonimento per il nostro comune futuro.
“Ogni cosa è illuminata” è uno di quei piccoli film necessari, sospesi fra dramma e commedia, in grado di elaborare, con il dovuto straniamento, il tema del valore dell’esperienza e della necessità della memoria vissuta non solamente come stanco rituale celebrativo. Conservare le tracce del passato deponendole sulla superficie della nostra coscienza può e deve ancora significare aprirsi agli altri, per sentirci tutti partecipi di una Storia comune.
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