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“Mary”, la tentazione di Maddalena

  • 20 novembre 2005

Mary
Francia/ U.S.A./ Italia, 2005
Di Abel Ferrara
Con Juliette Binoche, Forest Whitaker, Matthew Modine, Heather Graham, Marion Cotillard, Stefania Rocca

«La terra e il sesso sono dentro di noi. Fuori non ci sono che le stelle»: questo dice la Maria di Godard in “Je vous salue, Marie”, film in cui il maudit del cinema francese rilegge la Natività adattandola ai giorni nostri, dipingendo la Vergine delle Sacre Scritture come “un’anima prigioniera del corpo”. Quel film visivamente splendido fece a suo tempo assai scalpore, riuscendo pure a vincere il premio della giuria ecumenica al Festival di Berlino. Niente di blasfemo, ma solo una visione in controluce, tra misticismo e realismo, sul mistero della vita, con personaggi archetipici che vivevano i turbamenti contemporanei. L’elemento terreno era lì rappresentato dal personaggio di una Juliette Binoche che muoveva i primi passi nel mondo del cinema: la sua Giulietta s’interponeva tra la solitudine di Maria e la disperazione di Giuseppe, che ella amava in modo struggente. In una chiave surreale, Godard apriva il suo sapienziale poemetto cinematografico all’immenso scenario della retorica religiosa, e lo faceva da mistico. Risulta, invece più concretamente problematico, e addirittura politico, il regista Abel Ferrara nell’affrontare il grande tema al centro del suo “Mary”, vincitore a Venezia del premio speciale della Giuria. Peccato e redenzione, colpa e pentimento: sono i paradigmi ricorrenti nella filmografia di questo autore originale e veramente indipendente, si pensi al suo “Il cattivo tenente” o a quel capolavoro che rimane “Fratelli”. In questo nuovo Ferrara ritroviamo la dolce Binoche che nel frattempo si è lasciata alle spalle opere importanti, imponendosi come uno dei volti più belli e intensi del cinema europeo, un volto immortalato da registi come Kieslowski o Carax.

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Qui interpreta il ruolo di un’attrice, Maria Palesi, che ha appena finito di girare nei panni di Maria Maddalena un film sulla Passione di Gesù dal titolo “This is my blood”. Terminate le riprese la donna rimane prigioniera del suo ruolo, emotivamente coinvolta nei nodi del conflitto infinito tra israeliani e palestinesi, e decide di recarsi a Gerusalemme per intraprendere un lungo, travagliato cammino che la conduce fino al Santo Sepolcro. Regista e interprete del film nel film è il cinico Tony Childress di Matthew Modine, che viene preso di mira dai fondamentalisti anticattolici il giorno della prima a New York (e qui Ferrara lancia una frecciata al blockbuster di Gibson “La Passione”). Tony è ospite di un programma televisivo condotto da Ted Younger (Forest Whitaker), un conduttore alla Bruno Vespa, che si preoccupa più degli indici d’ascolto che degli argomenti che affronta, speculando sul mediatico clamore che suscita ancora lo scandalo della vita e della morte di Cristo. Per il suo mestiere, Ted arriva a trascurare la moglie Elizabeth (Heather Graham), sofferente in ospedale per la nascita prematura del figlioletto. Segnato da una conseguente crisi spirituale, l’anchorman riscopre una vena mistica (la preghiera in ospedale davanti ad un crocefisso è un grande pezzo di bravura dell’attore Whitaker): la sua è una dolorosa via di fuga dagli altrettanti meccanismi dello show business. Dunque, sono ben tre le vicende che si incrociano in “Mary”, film complesso e suggestivo, con una bellissima fotografia notturna con la quale Stefano Falivene ridipinge New York (altra location è Roma dove appare brevemente Stefania Rocca nella parte di una produttrice televisiva).

C’è poi la Gerusalemme ferita nella quale si sviluppa il calvario spirituale di Maria Palesi, sconvolta dalla tentazione d’identificarsi con la Maddalena testimone della Crocifissione, e alla ricerca di un senso primo delle cose. In questa continua allusione alla necessità del messaggio evangelico, in una chiave però non conciliatoria e in relazione con l’attuale condizione dell’umanità segnata dalle devastazioni dello sviluppo, Ferrara si rivolge naturalmente al maestro Pasolini, in una sintonia che assume anche una proporzione stilistica, nella scelta di un linguaggio cinematografico povero e visivamente intenso. Se volete, si può leggere questo piccolo capolavoro di Ferrara (che qui ripercorre la sua tendenza ad interrogarsi sulla natura del cinema, come nel precedente “Occhi di serpente”) come una risposta all’effluvio mercificato della soap-tv religiosa ed agiografica, quella che fa rimpiangere persino i kolossal normalizzati della Hollywood dei Charlton Heston. Con tagliente intelligenza e polemico pudore, il regista ritaglia i suoi significativi parallelismi tra la Gerusalemme insanguinata dei conflitti coi Romani e quella contemporanea, agitata da opposte minacce integraliste, centro nevralgico di una esplosione di orrore che le immagini di repertorio, inserite nel film, ci rammentano. La tentazione di Maria diventa quella di Ferrara, e forse di qualunque artista: ritrovare l’essenza di un dialogo con sé stessi e le cose, attraverso antiche forme di contemplazione e rinnovate emozioni nella preghiera rivolta a quel Dio che forse, Lui solo, ci può salvare.

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