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"La Casa del diavolo", horror alternativo alla morale dominante

  • 29 maggio 2006

La Casa del diavolo (The Devil’s Reject)
Usa, 2005
di Rob Zombie
con Sid Haig, Bill Moseley, Sheri Moon Zombie, William Forsythe

“La Casa del diavolo” (ma cominciamo subito a chiamare le cose con il loro nome: il titolo originale è “The Devil’s Reject”, però evidentemente ai distributori italiani pareva brutto tradurre la parola “rifiuti” – per quanto fondamentale – e hanno ben pensato di sostituirla con una fantomatica “casa”, di cui peraltro nella storia non v’è traccia) è un’opera disturbante, destabilizzante, distorta – si sarebbe quasi tentati di dire socialmente pericolosa – ma anche, per tutti questi motivi, in qualche modo necessaria.
Niente a che vedere con “La Casa dei 1000 corpi” (dove, invece, la “casa” c’entra), il primo lavoro del regista-musicista dal nome programmatico Rob Zombie. In quel caso si trattava ancora di un esercizio di stile – per quanto estremo, sanguinoso e anti-politically correct – che rimaneva confinato in un’ottica convenzionale rispetto al genere horror, di cui poteva considerarsi una rielaborazione citazionista e teorica.

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“The Devil’s Reject” va molto oltre: esce al di fuori dei confini del genere per approdare lì dove il road movie si incontra con la metafora politica. I protagonisti sono gli stessi del primo film: una famiglia sanguinaria che vive nel cuore dell’America sudista più rozza e primitiva, guidata dal perverso clown Captain Spaulding, che non esita a sottoporre chiunque gli capiti sotto tiro alle più indicibili ed efferate torture. I “Rifiuti del Diavolo”, appunto. Che in questo nuovo episodio, tuttavia, da cacciatori diventano preda. Il clan è, infatti, braccato dalla polizia e intraprenderà una disperata fuga facendo terra bruciata sul proprio cammino. Il movimento non è più centripeto ma centrifugo, il focus non è più la dimensione domestica (con buona pace degli adattatori italiani) ma il rapporto con il mondo esterno. “The Devil’s Reject” mette in campo un conflitto di valori: la Civiltà e le convenzioni della morale dominante contro il vivere della famiglia, che con il suo agire si spinge fino al ribaltamento totale dell’ordine naturale e dei tabù ancestrali della nostra società.

Un ribaltamento che si esprime da più punti di vista: nell’uso indiscriminato della violenza, nel rapporto con la morte, nel sesso. Ma il film sostiene anche l’interscambiabilità di queste posizioni: i protagonisti tra loro si scambiano effusioni e solidarietà proprio come se fossero una famiglia “normale”, mentre i poliziotti fanno presto a trasformarsi in barbari giustizieri… Ecco, quello che fa veramente paura di “The Devil’s Reject” è che noi fin dall’inizio siamo dalla parte del diavolo. Lo spettatore è forzato a solidarizzare con un branco d’uccisori schizofrenici, e il bello è che ciò appare come del tutto naturale. Soprattutto nel finale, in cui si dispiega compiutamente tutta la carica eversiva del film: un epilogo dal tono epico-elegiaco, quasi commovente. Socialmente pericoloso? Forse, ma in tempi come i nostri, in cui i concetti di Bene e Male sono oggetto di estreme polarizzazioni nelle dottrine, nella retorica ideologica, nella formazione del pregiudizio, in particolare in Usa, una visione alternativa come questa non può che essere un toccasana.

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