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L'inutilità del tutto alla ricerca della vita

  • 31 maggio 2005

Le lettere scritte da Jacques Vachè, sedici delle quali raccolte in questo apprezzabile formato tascabile (:duepunti edizioni, Palermo pp. 80, € 6,00) – sono state scritte negli ultimi due anni della “grande guerra” e indirizzate, per la maggior parte, ad Andrè Breton –padre del surrealismo francese. Un carteggio, specie se scritto in situazioni circostanziate come la guerra, è qualcosa di strettamente personale, da cui trascende il sentire e gli umori di una penna e di chi la fa muovere sul foglio, ma quelle di Jacques Vachè, che si firma istrionico Jacques Tristano Ilare (Tristan Hilar) o anche Harry James, sono qualcosa di più, e cioè: l’apertura di un mondo interiore in guerra che s’oppone agli eroi e alle convenzioni di una «bella epoca» già giunta al suo capolinea. L’inconscio testamento spirituale, che lascia questo dandy protodadaista, antesignano delle avanguardie surrealiste, è sintomatico di un sentire senza tempo – l’inutilità del tutto (quasi pare guardare all’oggi), in un mondo afflitto da mostri irrequieti – di una lotta contro la noia – condotta in modo bizzarro, senza morti sul campo ma feriti irrisi – per ricercare una entità viva, che trasformi l’identità singola – resa coscienziosamente libera nel comune. L’incontro tra Breton e Vaché sortì effetti sconvolgenti. Breton restò ammaliato da questo giovane interessato alla letteratura e alle arti; un oracolo, come lo definirà poi Breton, elegante e raffinato, e con quel suo affrontare la vita in modo eccentrico e con stile.

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Breton ricorderà il Vaché, già deceduto nel gennaio 1919, nel manifesto surrealista del 1924. Con affetto dirà di lui «Vachè è surrealista dentro me». In pratica un antesignano, che orienterà i passi di Breton, che nel manifesto surrealista evidenzia quel sentire proprio di una generazione, cresciuta durante la prima guerra mondiale, che cerca nuove espressioni. In pratica il surrealismo lavora per il cambiamento, la trasformazione, il capovolgimento del tutto che parte dall’individuo – già cosciente della propria non libertà – per approdare alle arti e alla letteratura; per affrancare l’universalità schiavizzata, facendole ritrovare il vascello perduto – l’immaginazione e il desiderio – perché tutti possano autonomamente costruirsi in armonia la propria vita.
La personale guerra di Vachè, in questa direzione, per esempio, può essere ricordata in quattro momenti: la divisa per entrambi i fronti – metà francese e metà tedesca, in effetti piena di ninnoli e pertanto ingannevole all’occhio esperto – il raid compiuto al conservatorio Maubel, con tanto di pistola spianata verso il pubblico – il presentare gli altri con nome diverso dal proprio – come una sorta di evasione dall’io – e, infine, la morte per overdose d’oppio, che stroncò il Vaché a soli ventiquattro anni – suicidio? incauto incidente? estrema fatalità? gesto pre-surrealista? Le «Lettere di guerra» sono tutto questo, o meglio un testamento umano e per l’umanità, come tale non confinato al tempo d’origine, ma vivo. Un documento che ha diritto di cittadinanza, la sua validità, per la conoscenza di un mondo talvolta inutile, spesso noioso, ma che gira vorticoso alla ricerca della vita.

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