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Joris-Karl Huysmans, un decadente “alla deriva”

  • 30 aprile 2007

Un povero diavolo consumato dalla vita, invisibile come tanti, celibe e impotente, si fa trascinare alla deriva come un relitto in una Parigi di fine Ottocento. Questo è il corpo di “Alla deriva” (:duepunti edizioni, 2007, pp. 92, euro 9,00) di Joris-Karl Huysmans, autore francese noto soprattutto per aver scritto nel 1884 un capolavoro del decadentismo come “À rebours”. Questo lungo racconto, o romanzo breve, edito dalla palermitana :duepunti, è un corrosivo resoconto della vita grama di un impiegato parigino, Jean Folantin, che giunto ai quarant’anni, si ritrova scapolo, disperato e per di più povero in canna. La sua insoddisfazione ci viene raccontata attraverso la sua grottesca ricerca di decenti posti dove mangiare, perché egli non è più in grado finanziariamente di sostenere il peso economico di una domestica che lo accudisca. D’acchito potrebbe sembrare uno dei personaggi maledetti di Dostoevskij, che scelgono l’abisso, appunto la deriva, ma si comprende subito che l’impressione è sbagliata: Folantin non ha dalla sua la forza della scelta, egli è guidato da delle semplici vicende che si alternano. Il registro comico del romanzo non deve far passare inosservato lo sguardo impietoso con cui Huysmans accompagna il suo personaggio. Folantin rimpiange un po’ tutto, ma non ha l’energia di forzare con un gesto l’immobilismo che lo pervade: la noia non viene rotta dall’anarchia, essa si perpetua nell’ordine di una vita arrendevole ed esausta.

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Grande spazio nel libro è dedicato agli episodi tragicomici relativi ai pranzi e alle cene dell’impiegatuccio parigino. Il suo brucare tra osterie e bettole alla ricerca di un pasto degno di questo nome è rappresentato dallo scrittore come un vero dramma. Tanto che Folantin frustrato anche nello spirito per i continui buchi nell’acqua decide ad un certo punto di farsi passare l’appetito nutrendosi con i farmaci. Ma perché Huysmans ci descrive la vicenda di un uomo che potrebbe rappresentare una moltitudine, limitandosi a raccontare la sua spasmodica ricerca del pasto? Cos’è il buon cibo mangiato in un buon ristorante, ieri come oggi? Sicuramente sintomo di classe abbiente, di relazioni sociali, e, senz’altro, segnale di una vita piena e non squallida. Questo ci pare il nocciolo del racconto. Al protagonista il tentativo di affrancarsi dalla sua esistenza misera non riuscirà, le sue aspirazioni ad una vita migliore falliranno miseramente e alla fine, l’unica cosa che sarà in grado di fare è tirarsi dalla tasca una morale molto consolatoria che, riflettendoci bene, sa di comune e di già sentito: «la cosa più semplice è andar di nuovo nella vecchia gargotta, tornarsene domani all’ovile atroce. Suvvia, il meglio decisamente non esiste per la gente che non ha il becco d’un quattrino: viene soltanto il peggio».

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