CINEMA E TV
"Il gusto dell'anguria", succhi d’amore e di vita
Il gusto dell'anguria (Tian bian yi duo yun)
Cina, Taiwan, Francia, 2004
Di Tsai Ming-liang
Con Lee Kang-sheng, Chen Shiang-chyi, Lu Yi-Ching, Yang Kuei-Mei, Sumomo Yozakura
Con “Vive l’amour” il regista taiwanese Tsai Ming-liang gira uno dei film più struggenti ed estremi degli anni Novanta, portandosi a casa nel 1994 il Leone d’oro ex aequo con il mediocre “Prima della pioggia”. Così, al suo secondo film, il giovane regista si conferma come uno dei più incisivi talenti cinematografici in campo, abilissimo nel raccontare storie di solitudini allo sbando, puntando sui silenzi dell’alienazione quotidiana, sul doloroso strazio di una incomunicabilità diffusa e irrimediabile, sui sentimenti perduti che riempiono fino all’orlo i protagonisti del suo indimenticabile esordio (con l'ormai citatissimo primo piano lungo dieci minuti di chiusura). E’ cinema purissimo, quello di Ming-liang, pittore dei sentimenti smarriti: la sua ricerca di una qualità compositiva è sempre finalizzata al recupero di un valore espressivo pieno, ad una visionarietà che si sforza di dare corpo alle ombre. Dopo il penultimo, splendido (e purtroppo, da noi, inedito) “Goodbye, Dragon Inn”, Tsai è tornato col suo nuovo, sorprendente “Il gusto dell’anguria”, con cui ha vinto, al festival di Berlino di quest’anno, un meritato premio per la migliore sceneggiatura. I protagonisti sono gli stessi di “Che ora è laggiù?”: un ragazzo, venditore di orologi alla stazione, che s’innamora di una fanciulla, incamminatasi sulla rotta che da Taipei conduce a Parigi. Ne “Il gusto dell’anguria”, le cose cambiano: Hsiao Kang (Lee Kang-sheng) ha smesso di vendere orologi ed è diventato un attore di film porno, mentre Shiang-chiyi (Chen Shiang-chyi) è tornata da Parigi trovando un impiego come guida al National Palace Museum.
Laddove l’abbrutimento dei sensi coincide col degrado ambientale di una condizione umana intollerabile, la parola (come l’amore) è latitante: «Vendi ancora orologi?» – è la sola domanda che la protagonista rivolge al suo giovane attore porno ritrovato, una parola incapace di generare risposte. L’anguria diviene il simbolo della remota e ancora resistente carica vitale, metafora dell’eros, di un mistero carnale che cela i succosi umori del desiderio. Bellissima è la sequenza del gioco erotico sul set dove la penetrazione all’interno del frutto, compiuta con un dito dal ragazzo, prepara quella dei corpi, violenta fino all’urlo. Ma c’è anche la tenerezza feticistica di Shiang-chyi, quel suo leccare, baciare, nutrirsi d’anguria: un gesto amoroso che compensa l’assenza di eros e di altri terrestri nutrimenti. Con “Il gusto dell’anguria”, Ming-liang ha fatto un film duro e puro, che denuncia senza ritrosie l’assenza di pulsioni in una società consumisticamente degradata a cui i protagonisti reagiscono gettando il proprio corpo in una lotta amorosa impotente ma senza limiti. E la pellicola è anche permeata di un poetico humour nero, di ascendenza surrealista, capace di coinvolgerci in un effetto straniante che avvicina quell’universo al nostro. L’evasione che questo film propone è quella autentica, assai diversa dal giochetto scacciapensieri e consolatorio dei prodotti andanti. E’ l’evasione illuminante, che ci svela la natura delle cose, del presente e di noi vivi nonostante il decadimento che ci circonda.
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