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"I mimi", raffinata magia verbale

  • 10 luglio 2006

“I mimi” (Mimes, :duepunti edizioni, 9 euro) sono la raccolta di raffinate prose di André Marcel Mayer alias Marcel Schwob (Parigi 1867-1905), autore parigino di fin de siècle, antinaturalista, simbolista e irrazionalista soprattutto noto per le sue "Vite immaginarie". La casa editrice :duepunti, sotto l'ausilio lessicale di Silvia Baroni curatrice della traduzione, ripropone questa composizione di brevi testi, appunto mimi (componimenti teatrali in versi coliambi) edita per la prima volta a puntate nel 1893. Essi nascono, in rispondenza ai Mimi di Eronda (poeta, III sec. a.C.), riscoperti e pubblicati sul "Mercure de France" nel 1891; infatti Schwob sul finire del prologo quasi spiega al lettore di come affidi al messo infernale, inviatogli dallo stesso poeta Eronda, dei «mimi nuovi impregnati del profumo delle donne di Kos».

"I mimi" sono una foresta di simboli in cui si scorge una raffinata magia verbale, la musicalità di un'evocazione pre-conscia e decadente che ripercorre in chiave allegorica temi e immagini della classicità: la morte di Pan, il declino degli dèi e l'inizio del moderno. L'autore, ospite visionario, lascia intuire al lettore il volontario processo di estraniazione dalla realtà, utilizzando l'anima del circostante per dissipare gli ottenimenti della ragione e abbandonarsi ad un immaginario sospeso sempre tra realtà e sogno.

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Si percepisce il senso di questa caduta, che non trova mai un terreno su cui approdare, ma solo fugaci soste che sono finestre soffiate tra vizi e virtù di attori a cui la sua penna dà voce: che siano prostitute, mercanti, ombre, oggetti, amanti o peccatori poco importa perché ognuno di essi trova lo spazio della propria deforme umanità e svela i demoni e le stanchezze della propria quotidianità. La comprensione di questo “racconto poetico”, l'originalità letteraria di tutta la produzione schwobiana, non può prescindere dalla vita stessa di questo poeta del tempo, alchimista della lingua, faussaire de la nature che fu antesignano di un genere immaginario, un réalisme iréel, che troverà i suoi epigoni in Apollinaire, Pavese, Borges, Vonnegut Jr., eppure misconosciuto, conduttore di una vita sregolata, oppiacea e melanconica in linea con il vissuto di una Parigi post-rivoluzionaria.
La lettura è corpulenta impregnata di odori, pigmentate emotività, rubate agli animi che il suo costrutto partorisce e che ansimanti infestano la mente del lettore anche quando il libro tace riposto ad un angolo. I versi rimangono astanti nella comprensione del fruitore, essi inconsciamente continuano a mimare una realtà che solo la mente riconosce e che si trascina oltre quei confini razionali che l'autore tentò e riuscì a dissimulare.

Occhi, mani, sensi, pelli, superfici inanimate divengono vita, indossano l'inchiostro e si raccontano, lasciando trasparire l'erudita ricercatezza del loro mastro; Schwob, infatti, oltre che abile conoscitore ed estimatore della cultura classica, ne fu promotore con una vasta opera di traduzioni. È un libro che colpisce immediatamente l'attenzione, inducendo alla fuga ma anche al ritorno ad una realtà che costruisca la figura di questo romanziere poliedrico, filologo, critico letterario, giornalista, intellettuale di pregiata fattura. Un libro da sotto le stelle, speziato, ruggente per l'abbandono a cui conduce e alle sospensioni che stilla nell'animo di chi neofita, superando le arcaicità del linguaggio lascia alle immagini il compito di raccontarsi.

È impossibile nel rifluire dell'epilogo, non chiedersi chi sia questo «scrittore amato dagli scrittori» come ricorda nella postfazione del libro Roberto Speziale? Chi sia questo favolista amareggiato ed invadente, che con la sua prosa originale e melanconica invita il lettore a distanza di un secolo a lasciare gli anfratti della quotidianità e ormeggiare in un tempo che egli stesso non visse, dalle parole che uncinano e spogliano con arguta sensualità?

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