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Dietro parole e silenzio le piattaforme dell’anima

  • 3 aprile 2006

LA VITA SEGRETA DELLE PAROLE
Spagna, 2005
Di: Isabel Coixet
Con: Sarah Polley, Tim Robbins, Javier Càmara, Sverre Anker Ousdal, Steven Mackintosh, Eddie Marsan, Julie Christie

La vita è anche fatta di parole (giuste o sbagliate che siano) ma spesso sono i silenzi a renderci come agli altri. E’ pure vero che le parole sembrano ormai troppe e che sono poche quelle necessarie, utili ad ispirarci e a guidarci nell’attuale marasma della comunità mediatica e globalizzata: “Le parole sono importanti”, diceva Moretti non tanto tempo fa. E’ importante parlare con efficacia agli altri ma anche a noi stessi per soffocare il mal di vivere che rischia di annichilirci tutti. Senza le parole, quelle razionali e quelle emotive, si rischia dunque l’afasia generatrice irreversibile dei piccoli e grandi mali quotidiani. Hanna, il personaggio di “La vita segreta delle parole”, è per l'appunto una ragazza del non più tanto lontano est che ha scelto il silenzio. Il ritmo della sua vita è scandito dai tempi del suo lavoro di operaia in una fabbrica. Ma Hanna è una non udente: il suo handicap le consente più facilmente di estraniarsi dalla realtà, di ascoltare soltanto il proprio dolore. A dare consistenza a questo difficile personaggio è Sarah Polley, attrice magnifica che ci sorprende grazie alla sua rara intensità. E’ uno di quei volti indimenticabili che, sul grande schermo, riescono ad esprimere i conflitti di una identità segnata.

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Costretta a prendersi delle ferie, la giovane si rifugia in un paesino di mare, tentando di sfuggire al caos emotivo che la travolge. Le capita l’opportunità di ritornare a fare l’infermiera (il suo primo lavoro) prendendosi cura di un uomo gravemente ustionato che deve raggiungere a bordo di una piattaforma petrolifera. E’ una occasione di fuga dalla realtà dolorosa, una possibilità concreta di astrazione: via dalla terra ferma per uscire dal cul de sac di un quotidiano intollerabile. L’uomo ustionato e temporaneamente accecato si chiama Josef (uno straordinario Tim Robbins) ed è stato vittima di una esplosione che ha mutato l’atmosfera sulla piattaforma. Il dialogo tra Hanna e Josef diventa presto ironico e struggente e la donna ritrova la necessità della parola uscendo dal proprio cronico torpore. Sulla piattaforma s’incrociano pure i destini di altri bizzarri personaggi: c'è Simon (un bravissimo Javier Càmara), cuoco spagnolo che ama cucinare piatti prelibati ispirato dalla musica di paesi stranieri; c’è un uomo che passa i suoi giorni contando le onde del mare ed un altro che gioca a basket spiato da un’oca ammaestrata. Ma è proprio questo microcosmo variegato che permette a Hanna di riscoprire la propria voglia di comunicare, di vibrare, di vivere. Riaffiorano così nella sua memoria alcuni drammatici episodi della guerra dei Balcani, come cicatrici indelebili in grado di segnare corpo e anima.

Con “La mia vita senza me”, film ispirato e assai convincente, la regista Isabel Coixet ha tratteggiato con gusto e misura un ritratto di contemporanei disagi, riuscendo a parlare con grazia del sempre incombente pericolo della morte delle emozioni. Come nell’ultimo “La vita segreta delle parole”, presentato nella sezioni “Orizzonti” di Venezia dell’anno scorso, troviamo ancora una volta coinvolti Agustin e Pedro Almodòvar in veste di produttori. I due film sono accomunati da un intento simile, quello di indagare intorno ai rapporti tra passato e presente che condizionano lo sviluppo delle identità e delle maschere dell’uomo contemporaneo. La memoria dell’orrore diventa per Hanna qualcosa di vivo e persistente, la causa del suo isolamento cercato di cui è sintesi il gesto nevrotico dello spegnimento dell’apparecchio acustico. E ancora una volta la memoria individuale diviene simbolo concreto della memoria collettiva. Per l’altro protagonista del film, Josef, la condizione fatale è quella di una immobilità fisica che corrisponde ad una malattia dell’anima e di una temporanea cecità che, invece, gli permette di acuire gli altri sensi, predisponendolo all’ascolto delle parole della sua nuova complice. E anche tutti gli altri personaggi della metaforica piattaforma sono un po’ degli esiliati volontari intenti ad elaborare le rispettive possibilità di fuga, come il cuoco Simon, che lega i fili della Storia con la propria vocazione culinaria, in un estremo tentativo di colloquio col mondo.

Altre parole sono quelle della voce off di un bambino, interpreti della coscienza di Hanna come una presenza che stenta a rivelarsi perché non ancora matura. Nel ruolo di una psicoteraupeta troviamo la grande Julie Christie: la sua Inge incarna, tirandoselo appresso, tutto il dolore della vittime di una guerra ingiusta come le altre. Lasciando che i suoi personaggi acquistino a poco a poco consistenza, la Coixet ci regala un autentico gioiello drammaturgico che sul finale su apre ad una possibilità di speranza (a differenza di quanto accadeva nella precedente sua prova). E’ possibile sopravvivere a se stessi e al dolore dell’esperienza a patto che ci si sottoponga alla prova estrema: superare le barriere dell’angoscia e dell’alienazione, cercando nuove possibilità di dialogo con gli altri, con l’Altro. Dove ciò avvenga poco importa: questo film ci dice che tante possono essere le occasioni, infinite le piattaforme dove rifugiarsi per combattere la vergogna dei tanti, troppi orrori del mondo.

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